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Il popolo Indigeno dei Sámi e la Conoscenza Ecologica Tradizionale: difficoltà e lezioni da imparare nel XXI secolo

  1. Introduzione: chi sono i popoli indigeni?

Chi non si occupa di diritti umani o questioni indigene può ancora credere che i popoli indigeni abitino terre lontane, abbiano usi e costumi antichi e a volte rudimentali, che non abbiano nulla o poco a che fare con la cultura occidentale contemporanea e soprattutto che abbiano poco o nulla da insegnare.

Questo articolo si pone l’obiettivo di presentare la cultura indigena e soprattutto quella del popolo indigeno Sámi e osservare quanto questa abbia tanto da insegnare, soprattutto in ambito socio-cultural e ambientale europeo.

In primo luogo, cosa significa ‘indigeno’ in questo contesto? La parola ‘indigeno’ è sinonimo di autoctono, nativo, originario del luogo. Si riferisce alle popolazioni indigene come i Maori in Nuova Zelanda, i Kichwa in Equador, i popoli nativi nel Nord America come i Lakota, oppure i Maasai in Tanzania e agli aborigeni australiani. La parola ‘aborigeno’ è talvolta utilizzata come sinonimo di ‘indigeno’. Altre volte ci si può riferire ai popoli indigeni come popolazioni tribali, o tribù, popoli autoctoni, indios, nativi o popolazioni native e questo dipende dalla storia e dalla cultura del luogo; in questo articolo userò la denominazione di indigeno o popoli indigeni per facilitare la comprensione della lettura.

Ma chi sono i popoli indigeni? Ad oggi non vi è una definizione univocamente accettata nel contesto globale. I popoli indigeni hanno ripetutamente fatto richiesta di essere annoverati come tali, richieste che purtroppo non sono ancora state accettate. I grandi Stati, tanto è vero, non hanno ancora voluto prendere posizione in merito, nonostante l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) abbia identificato criteri abbastanza chiari come: l’auto-identificazione come popolo indigeno, continuità storica con le società pre-coloniali; forte legame con i territori e le risorse naturali circostanti; sistemi sociali, economici o politici distinti; lingua, cultura e credenze distinte; sforzo di mantenere i propri ambienti naturali sani e riprodurre i sistemi ancestrali come popoli e comunità distinti dalla società dominante (ONUGA 2007).

Quesito fondamentale alla base di questo articolo è che cosa i popoli indigeni nel XXI secolo ci possano insegnare e soprattutto i popoli Sámi in un contesto socio-culturale e ambientale europeo?

Per rispondere a questa domanda, l’ articolo presenta una panoramica dei popoli Sámi, del loro territorio, delle loro pratiche di sostentamento tradizionali che riguardano principalmente l’allevamento semi-nomade delle renne e la pesca del salmone. Inoltre, l’analisi include la conoscenza ecologica tradizionale Sámi e del rapporto conflittuale di questo tipo di sapienza con la scienza ufficiale. Nel sottolineare l’importanza del territorio in cui vivono tradizionalmente i Sámi e la connessione con la conoscenza ecologica tradizionale, mi propongo di porre all’attenzione del lettore sui diversi tentativi indigeni e non-ingigeni di presentare la complessità di definire che cos’è la conoscenza tradizionale indigena.

Metodologicamente questo articolo è il frutto di una revisione letteraria sulla cultura Sámi e raccoglie studi e articoli precedenti dall’autrice per la prima volta in italiano. La nuova prospettiva presentata in questo articolo riguarda: la relazione tra la conoscenza ecologica tradizionale Sámi e la scienza accademica convenzionale, il loro incontro-scontro e soprattutto la critica neocoloniale (sezione 5) che evidenzia discriminazioni del sapere non-accademico ufficiale, come la conoscenza ecologica tradizionale Sámi. Questa critica sulla formazione del sapere ha l’obiettivo di ampliare il potenziale epistemologico e promuovere modi alternativi di produzione di conoscenza.

  1. I Sámi, la storia e il loro territorio

I Sámi – scritto anche ‘Saami’ – sono considerati l’unico popolo indigeno ufficialmente riconosciuto in Unione Europea, secondo i criteri dell’ONU e dell’OIL (Orgnizzazione Internazinale del lavoro)[1]. Molti gruppi minoritari in Europa, come ad esempio i baschi in Spagna e i popoli rom, hanno ripetutamente chiesto di essere introdotti nella lista dei popoli indigeni. Richieste che fino ad ora non sono state accolte poichè alcuni stati europei non hanno ancora voluto prendere posizione nonostante i criteri ONU precedentemente citati come l’auto-identificazione come popolo indigeno, la continuità storica con le società pre-coloniali, ecc. (ONUGA 2007).

I Sámi erano più comunemente conosciuti con la designazione di Lapponi, ovvero col nome che la popolazione dominante – popolazione maggioritaria o i colonizzatori – avevano dato a questo popolo, mentre Sámi è il nome che loro stessi si sono scelti e col quale è più giusto e corretto riferirsi a loro.

I Sámi originariamente hanno abitato, e ancora abitano, da tempi immemorabili nel profondo nord, in una regione chiamata Sápmi – che prende appunto il nome da questi popoli – la quale si estende nel nord della Fennoscandia, ovvero nel nord della Norvegia, della Svezia, della Finlandia e nel nord-ovest della Confederazione Russa (Britannica 2020; Groth and Lassinati 1982). Questa regione non ha confini ben precisi ed è andata sempre più riducendosi a causa di diversi fattori quali: il cambiamento climatico, il disboscamento, le centrali idroelettriche, lo sviluppo del turismo (Kyllönen et. al. 2006, 695–697), l’avanzamento di industrie estrattive (quali estrazione del petrolio, di gas naturale, di diversi minerali, ecc.) che hanno sempre più limitato lo sviluppo dei mezzi di sussistenza tradizionale Sámi. Questo territorio, Sápmi appunto, è comunemente, ed erroneamente, conosciuto come Lapponia, soprattutto dalla popolazione maggioritaria[2].

L’ambiente naturale dei territori tradizionali Sámi costituisce un elemento fondamentale per i Sámi, poichè strettamente legato ai mezzi di sussistenza tradizionali, quali l’allevamento della renna e la pesca del salmone. Il legame con la terra si estrinseca soprattutto: nell’uso sostenibile delle risorse naturali, in un’attitudine di grande rispetto, gratitudine e interscambio con l’ambiente naturale e con tutti i suoi elementi, viventi e non- viventi. Difatti, proprio grazie allo stile di vita sostenibile delle popolazioni indigene del Pianeta, l’80% della biodiversità globale si trova nei territori tribali, o indigeni, poichè, secondo un articolo del National Geographic, i popoli indigeni sono tra i migliori conservazionisti al mondo (Raygorodetsky 2018). Anche l’organizzazione Right and Resources Initiative (RRI), ha prodotto moltissimi studi negli ultimi anni su come i popoli indigeni che vivono sul territorio ancestrale contribuiscano a mantenere la biodiversità ma anche una migliore gestione del territorio (RRI and McGill University 2021)[3].

Queste popolazioni abitano nella regione di Sápmi da almeno 5000 anni e probabilmente anche da più a lungo, ma non vi è un consenso unanime tra i ricercatori per ciò che riguarda questa datazione. Certamente vero è che i Sámi abitano questi territori da molto prima della formazione degli stati-nazioni, quali la Norvegia, la Svezia, la Finlandia e la Russia. Lo scrittore latino Tacito (98 a.C.), infatti, fu il primo a menzionare i Sámi, con il nome latino di Fenni, già nel 98 a.C.

I Sámi sono suddivisi in comunità ognuna della quali ha le proprie tradizioni specifiche. Le diverse lingue Sámi derivano dal ceppo linguistico degli Urali, chiamate anche lingue uraliche. Nel nord della Finlandia ad esempio vi sono: lo Skolt Sámi, parlato nel nord-est, l’Inari Sámi, tipico della zona circostante la città di Inari e il Sámi del Nord, o Sámi settentrionale, che è il più parlato (AHDR II 2015, 116-17), ma altre lingue Sámi sono presenti e parlate nelle altre parti della regione, sebbene alcune siano in pericolo di estinzione.

Come popoli minoritari, i Sámi hanno subìto diversi tipi di discriminazione diretta e indiretta durante gli anni: come le politiche di integrazione forzata attraverso l’istruzione dei bambini, o le politiche di “norvegizzazione”, ovvero l’assimilazione forzata dei Sámi alla popolazione norvegese, l’Istituto di biologia raziale nazionale per la sterilizzazione delle donne Sámi in Svezia, come anche le politiche di sottrazione forzata delle terre Sámi per censo, favorendo la popolazione non-Sámi che viveva nel nord della Fennoscandia (Minde 2005).

Ad oggi è quindi difficile definire quanti Sámi vi siano, poiché molti discendenti Sámi preferiscono non registrarsi come tali proprio per le prolungate discriminazioni da parte della popolazione maggioritaria non-Sámi. In Finlandia ad esempio, si dice che vi siano più Sámi a Helsinki, la capitale, che in tutto il resto del Paese, trasferitisi principalmente per ragioni lavorative e di istruzione (EMRIP 2019, 12)[4].

  1. Le pratiche di sostentamento tradizionale Sámi

Non tutti i Sámi al giorno d’oggi vivono secondo gli usi e costumi tradizionali, molti di loro si sono mescolati tra le popolazioni nordiche, assorbendone usi, costumi e modi di vivere, abbandonando in tal modo le proprie tradizioni indigene. I Sámi, che preferiscono vivere secondo gli usi a costumi tradizionali, indossano abiti Sámi colorati; i diversi colori e le decorazioni simboleggiano le diverse comunità di appartenenza. Altrettanto tradizionali sono le pratiche di sostentamento Sámi che differiscono a seconda dell’ambiente circostante di ogni comunità, come: corsi d’acqua, laghi, mari ma anche tundra, montagne, foreste ecc. Ma le pratiche di sostentamento Sámi più caratteristiche sono l’allevamento semi-nomade della renna (Åhrén 2016, 281) e la pratica della pesca del salmone (Pedersen 2016, 281). Oltre a queste pratiche tradizionali principali, che sono profondamente legate all’identità Sámi come popolo indigeno, vi sono altre attività praticate attivamente a seconda della stagione e del ciclo naturale. Esempi di queste attività sono: la pesca del merluzzo (soprattutto per i Sámi che vivono sulla costa o vicino a corsi d’acqua), la caccia della selvaggina come alci e volpi, oppure la caccia di uccelli selvatici come la pernice bianca, così anche l’allevamento del bestiame come capre e pecore (Backman et al. 2016, II: 281-2), la raccolta di funghi, frutti di bosco come il mirtillo artico blu, il mirtillo rosso e la mora artica, erbe e spezie come ad esempio l’acetosella, l’arcangelica e la cicerbita violetta (Nilsson et al. 2011, 307–309). In pubblicazioni precedenti in lingua inglese, ho argomentato che le pratiche di sostentamento tradizionali Sámi sono profondamente legate all’identità Sámi come popoli indigeni e di conseguenza devono essere salvaguardate e protette (Casi 2019, 208; Casi 2020).

Negli ultimi anni gli usi, i costumi e lo stile di vita tradizionali Sámi sono andati via via modificandosi, finendo per adattarsi sempre più allo stile di vita moderno dei Paesi nordici, a tal punto che alcune attività tradizionali purtroppo sono scomparse (Sissons 2005, 140), come ad esempio attività legate ai tamburi traditionali Sami.

  1. La conoscenza ecologica tradizionale e il mondo scientifico

Recentemente vi è stato un rinnovato interesse per la Tradizional Ecological Knowledge (TEK), tradotto in italiano come conoscenza ecologica tradizionale riguardante i popoli indigeni, nell’ambito sia scientifico-accademico (Camerlenghi 2021) sia della cultura popolare.

La conoscenza ecologica tradizionale è la conoscenza tipica e unica di una comunità indigena o di un gruppo culturale che vive a stretto contatto con l’ambiente naturale circostante; essa si riferisce a un corpo di conoscenze non scritte, cha cambiano continuamente e che si trasmettono oralmente di generazione in generazione (Casi, Guttorm, Virtanen 2021; Berkes 1999/2012). Essa offre informazioni circa l’ambiente fisico e biologico di un luogo specifico (Henriksen 2011, 78); è profondamente legata a uno specifico territorio, e precisamente all’ambiente naturale in cui la comunità indigena si trova, per questo lo stimato ricercatore Fikret Berkes la definisce una conoscenza ‘situata’ (Berkes 1999/2012; Weir 2009) perché osservata e appresa in uno specifico luogo. Ha inoltre un valore non solo culturale ma anche spirituale (UNFCCC 2013, 24). Secondo la professoressa indigena Deborah McGregor, la conoscenza ecologica tradizionale non è solo semplice sapere riguardante i fenomeni naturali ma molto di più (McGregor 2004). E’ un approccio olistico alla natura e a tutti gli elementi viventi, e non- viventi, che la compongono; è un ‘modo di vita’, è una relazione personale (LaDuke 1997, 35) con l’ambiente naturale circostante, è tramandata di generazione in generazione ed è acquisita gradualmente attraverso la costante pratica quotidiana (McGregor 2004, 396) in un lungo lasso temporale. Non è un sapere statico ma dinamico, sempre in evoluzione e a passo con i tempi e con i costanti cambiamenti naturali and antropogenici. La conoscenza ecologica tradizionale è un modo di conoscere il mondo (Simpson 2001, 137-148), anzi è essa stessa una visione del mondo (Berkes 1999/2012, 5).

Ci sono stati tentativi indigeni e non-indigeni di definire la nozione di conoscenza ecologica tradizionale. Mentre, da un lato, le interpretazioni non-indigene sono parziali e incomplete, in quanto tralasciano aspetti significativi (Casi, Guttorm, Virtanen 2021), e ne offrono un approccio a volte coloniale, dall’altro lato, i punti di vista indigeni ne presentano un approccio olistico e più completo, che sottolinea l’interconnessione ambiente naturale ed esseri umani come qualcosa di inseparabile gli uni dagli altri (McGregor 2004, 394–95; Roberts 1996, 115). McGregor ha inoltre argomentato che la conoscenza ecologica tradizionale non è solo sapere sulla profonda connessione, ma piuttosto è la relazione stessa tra esseri umani e natura, così come il modo in cui un individuo si rapporta al mondo (McGregor 2004, 394). Infatti, la conoscenza ecologica tradizionale indigena è legata a sistemi sociali che identificano ciò che esiste nel mondo (ontologie), il modo di produzione della conoscenza così come cosa può essere conosciuto (epistemologie) (Casi, Guttorm, Virtanen 2021) ma anche la visione del mondo (cosmologia).

Arbediehtu è la parola, nella lingua Sámi del Nord, che identifica la conoscenza ecologica tradizionale ed è conoscenza ereditata (Porsanger and Guttorm 2011, 14, 17) dai propri avi e dagli anziani della comunità. Il profondo rispetto per la natura si manifesta nei popoli Sámi in diversi modi, non solo considerando con attenzione i cicli naturali ma anche lasciando un luogo come lo si è trovato e utilizzando ogni parte di un animale, ad esempio la renna che è fondamentale per la cultura Sámi (Casi, Guttorm, Virtanen 2021). Infatti, i Sámi ne mangiano la carne, ne usano la pelle e le ossa per farne pellicce, scarpe, vestiti ma anche accessori e ornamenti decorativi (Casi 2019, 208). L’attento rispetto per l’ambiente naturale si mostra anche nel riconoscimento dei Sami della dimensione spirituale degli animali, così come i territori e altri elementi naturali considerati generalmente inanimati, per i Sámi hanno in realtà spirito, valori, emozioni, un proprio modo di comunicare e di prendersi cura di altre parti della natura (Helander-Renvall 2016).

Tuttavia, nell’ambito della scienza occidentale, la conoscenza tradizionale ecologica è spesso non valorizzata e considerata inesatta poiché manca di un approccio di misurazione quantitativo e sistematico (Casi, Guttorm and Virtanen 2021) e per questo spesso non è riconosciuta come una scienza esatta. Pertanto, la conoscenza tradizionale ecologica è ritenuta non adatta, o non abbastanza precisa, in molti ambiti accademici convenzionali, scientifici e anche decisionali.

Nel caso dei popoli Sámi, la conoscenza ecologica tradizionale è anche legata ai mezzi di sussistenza quali l’allevamento delle renne, la pesca, la caccia, la raccolta di funghi, erbe e frutti di bosco, artigianato tradizionale così come il muoversi agilmente nelle foreste artiche, la conoscenza di alture, fiumi, laghi e del mare artico (Casi, Guttorm and Virtanen 2021). Proprio per questa connessione con i loro mezzi di sussistenza, la conoscenza ecologica tradizionale Sámi è a rischio a causa del degrado ambientale e del cambiamento climatico che influenza negativamente i popoli indigeni, come quello Sámi (UNFCCC 2013, 30; Casi 2020, 123). Così pure il riscaldamento del Mare Artico – le cui temperature aumentano quasi il doppio rispetto alle medie globali; secondo il quotidiano britannico The Guardian, ad esempio, il 6 luglio 2021, la Lapponia ha registrato la temperatura più alta (33,6° C) mai registrata dal 1914 (Cox et al. 2021)- e il conseguente scioglimento dei ghiacci marini mettono ulteriormente a rischio le attività di sostentamento tradizionale Sámi come la pesca (Amiel 2019).

Questi cambiamenti sono estremamente significativi non solo per i Sámi ma per la biodiversità di tutto il pianeta. La perdita della conoscenza ecologica tradizionale indigena è infatti enumerata tra le perdite e i danni non-economici (NELD) nel documento FCCC/TP/2013/2 delle Nazioni Unite, che riguarda il deterioramento non-economico del cambiamento climatico (UNFCCC 2013, 4, 12, 24, 30). Nello stesso documento si fa riferimento al fatto che, a causa degli inverni particolarmente miti, le renne del nord Europa faticano a trovare licheni, cibo favorito e fonte vitale per questi animali. Le conseguenze di questo fatto sono il declino del numero delle renne, la difficoltà degli allevatori di renne e il conseguente danno alla cultura Sámi, primariamente incentrata sull’allevamento di questi animali (United Nations Permanent Forum on Indigenous Issues 2008).

  1. Sapere scientifico e conoscenza ecologica tradizionale:

un incontro-scontro di saperi

Il periodo tra gli ultimi decenni del XX secolo e i primi anni del XXI secolo ha visto diverse mobilitazioni con lo scopo di opporre resistenza alla globalizzazione e al capitalismo neo-liberale, in parte responsabili di crisi come quella ecologica, sociale, economica, ma con il comune obiettivo di giustizia sociale (Notes from Nowhere 2003). Queste ondate di mobilizzazione hanno dato vita a una critica contro le limitazioni e le ineguaglianze strutturali del sistema globale e, allo stesso tempo, a una sensibilizzazione in ambito accademico per cui alcuni ricercatori hanno cominciato a criticare il positivismo e le premesse epistemologiche della conoscenza – come la classica divisione tra soggetto e oggetto, tra esseri umani e natura, le differenze tra uomini e donne ecc. – da diversi punti di vista, come quello: femminista, degli studi di genere, degli studi sullo sviluppo, studi sulla disabilità e studi post-coloniali, solo per citarne alcuni. Nel mondo accademico occidentale, i fondamenti del pensiero dominante occidentale sono basati su un pensiero binario che viene dall’Illuminismo, come: natura/cultura, corpo/mente, maschile/femminile, ecc.

Parafrasando George Orwell (1945/2016) che nel suo famoso romanzo La fattoria degli animali scrive che “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali di altri” scopriremo che possiamo trasporre la critica orwelliana della classe dominante sul resto della popolazione umana in ambito epistemologico. Ovvero, se proviamo infatti a sostituire la parola ‘conoscenze’ con ‘animali’ risulterà la frase che ‘tutte le conoscenze sono uguali, ma alcune conoscenze sono più uguali di altri’. Con questo piccolo gioco di parole vorrei evidenziare il fatto che ci sono tipi di conoscenze, come quella scientifica e accademica convenzionale, che sono privilegiate rispetto ad altri tipi di sapere non ufficialmente riconosciuti, tra i quali troviamo la conoscenza ecologica tradizionale indigena. Gurminder Bhambra (2017), professoressa di studi post-coloniali, suggerisce infatti che questo approccio è radicato nelle strutture del pensiero coloniale, il quale non mette tutte le conoscenze sullo stesso piano nell’ambito accademico globale, perciò le discrimina.

Queste critiche neocoloniali sulla produzione epistemologica convenzionale hanno lo scopo di ampliare le possibilità epistemologiche e promuovere modi alternativi di produzione del sapere.

In questo contesto, diverse comunità indigene hanno criticato l’uso della cultura occidentale troppo spesso additato come sapere universale, nei parametri della ricerca etica – soprattutto in ambito accademico – che si è diffusa in tutto lo strato sociale e culturale occidentale, determinando in questo modo meccanismi decisionali, che si promuovono come universali ma che sono in realtà parziali, e relativi al mondo occidentale (Hudson 2009, 125). I principi etici della ricerca dovrebbero essere universali in natura ma finisco per essere molto spesso incompleti e relativi alla cultura dominante occidentale, che quindi si manifesta come prospettiva coloniale e dispotica.

In contrapposizione a queste tradizionali forme di conoscenza, c’é stata una promozione delle pratiche di co-produzione del sapere (Conway 2004; Casas-Cortez et al. 2008; Cox and Forminaya 2009) ad esempio tra ricercatori accademici e esperti indigeni in progetti di mappatura del territorio regionale e osservazione dei cambiamenti di ecosistemi locali. In questo ambito sono scaturiti diversi lavori che promuovono la conoscenza ecologica tradizionale indigena, assieme al suo possibile contributo alla comprensione ecologica del pianeta e che la mettono allo steso livello della scienza tradizionale (Escobar 1998, 2009). Esempi di questi tipi di co-produzione sono i cosiddetti processi di consenso collettivo, o consenso di gruppo, i quali rafforzano processi di consultazione tra ricercatori e i gruppi indigeni (Hudson 2009, 125). In questi tipi di progetti, il consenso di gruppo permette non solo una partecipazione più ampia e giusta ma anche un ruolo attivo nella discussione e nella co-produzione di conoscenza da parte degli esperti indigeni. Inoltre, questi processi di co-produzione del sapere permettono di stabilire una relazione più profonda tra la comunità indigena e il gruppo di ricerca, così come una negoziazione più equa dei parametri di inclusione di diversi saperi che siano culturalmente etici e giusti anche per le comunità indigene.

Come ho già argomentato precedentemente in un articolo in lingua inglese (Casi 2019) e assieme ad altre ricercatrici (Casi, Guttorm and Virtnanen 2021) la conoscenza ecologica tradizionale contribuisce a dare una visione più completa e sostenibile dell’ambiente naturale osservato e della connessione reciproca tra esseri umani e territorio. Ho anche definito la saggezza pratica dei Sámi, derivata dalla loro conoscenza ecologica tradizionale, come un esempio di “sustainability virtue” ovvero di virtù della sostenibilità a cui tendere (Casi 2019, 210)  poiché rispetta i cicli naturali, i bisogni umani così come quelli degli animali e degli altri elementi della natura. È un esempio di virtù sostenibile nel senso che è trasmessa di generazione in generazione, assicurando i bisogni delle generazioni Sámi del presente, senza interferire nello sviluppo delle generazioni Sámi e non- Sámi del futuro (Casi 2019, 210).

Con le informazioni aggiuntive ottenute attraverso l’osservazione diretta del popolo Sámi del territorio artico e dei mutamenti ad esso connessi, è possibile avere una visione più completa dei cambiamenti dell’ambiente artico in un lungo arco temporale.

  1. Riflessioni conclusive

Specialmente durante questo periodo di pandemia (Covid-19), i giornali italiani raramente hanno dato spazio ai popoli e alle culture indigene. Eppure, ci sono importanti lezioni che tutti possiamo imparare dai popoli indigeni, come la relazione di profondo rispetto e interdipendenza tra gli esseri umani e la natura.

In questo articolo ho presentato il modo di vivere delle popolazioni indigene dei Sàmi, focalizzando l’attenzione sulla loro conoscenza ecologica e i mezzi di sostentamento tradizionali. Attraverso questa breve panoramica ho cercato di mostrare che il loro atteggiamento di fondamentale rispetto verso la natura, e verso tutti i suoi elementi viventi e inanimati, può rappresentare un modello ed assieme una visione etica e sostenibile che presenta un rapporto più equo e rispettoso tra gli esseri umani e l’ambiente naturale. Può quindi rappresentare un modello a cui tendere anche se a volte difficile da mettere in pratica non solo per i Paesi nordici, che vedono la presenza attiva di questi popoli, ma forse per i Paesi di tutta Europa, inclusa l’Italia.

La conoscenza ecologica tradizionale offre dunque un approccio olistico in un lungo arco temporale di uno specifico ambiente naturale, nel caso analizzato da questo articolo la conoscenza ecologica tradizionale dei Sámi offre una visione multidimensionale dell’ambiente artico e dei complessi ecosistemi che lo compongano. Questa conoscenza fornisce dati e osservazioni che la scienza occidentale convenzionale non ha, proprio per la diversità epistemologica di acquisizione del sapere. Esattamente per questo motivo la conoscenza ecologica tradizionale è un tipo di sapere che dovrebbe essere incluso nei processi e nelle politiche ambientali decisionali.

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[1] Vi è un dibattito aperto sulla veridicità di questa affermazione ovvero se effetivamente i Sámi siano considerati l’unico popolo indigeno nell’Unione Europea, poichè vi sono sono altre popolazioni indigene stanziate nel Nord della Federazione Russa, oltre ai Sámi, ma non vi sono fonti sicure riguardanti il luogo in cui queste popolazioni sono esattamente situate, se nella parte Europea o Asiatica della Federazione Russa. Gli Inuit sono un altro popolo indigeno situato in Groenlandia. La Groenlandia è geograficamente situata nel continete Americano ma forma parte del (Regno di) Danimarca e ne è stata una ex colonia ma ha uno statuto particolare di autogoverno dal 1979, il quale è stato riformato nel 2009 con l’Act on Greenland Self-Government (Act no. 473 of 12 June 2009). Per una sintesi, consultare il sito http://www.ilo.org/dyn/natlex/natlex4.detail?p_isn=110442 .

[2] Bisogna fare attenzione a non fare confusione poichè in Finlandia esiste una regione amministrativa – come in Italia troviamo la Toscana, la Puglia, l’Emilia-Romagna, ecc. – al nord del Paese chiamata anch’essa Lapponia, che in questo caso comprende solo la regione geograficamente situata al nord della Finlandia, entro i confini nazionali finlandesi. Diversa è la Lapponia intesa come Sápmi o territorio traditionale dei Sámi che attraversa il nord della Fennoscandia e parte della Federazione Russa.

[3] Altri articoli e rapporti riguardanti la grande varietà della biodiversità che si trova nei territori curati e abitati dai popoli indigeni possono essere trovati nel sito Rights and Resources Initiative https://rightsandresources.org/climateandconservation/

[4] Durante la mia permanenza in Finlandia come ricercatrice, negli ultimi dieci anni ho incontrato nelle situazioni più disparate diversi discendenti Sámi, i quali mi hanno confidato di essere tali solamente dopo aver capito il mio profondo interesse verso questi popoli. Ciò è indicativo delle difficoltà e della “libertà” –o meglio dire della non-libertà- di riconoscersi apertamente come appartenenti al popolo indigeno dei Sámi, difficoltà dovute proprio alle numerose discriminazioni e violenze subite.

Colonizzazione, decolonizzazione incompleta e la creazione dei popoli indigeni. I fondamenti dei loro diritti ‘speciali’

Introduzione

Questo breve saggio presenta una riflessione sulla storia del diritto internazionale, iniziando con Francisco de Vitoria e arrivando allo status giuridico dei popoli indigeni d’oggi.

Non è un esercizio autoindulgente – puramente ‘accademico’, nel senso peggiorativo del termine. Piuttosto, decostruendo le narrative legali dell’occupazione delle regioni polari, metterò in luce le contraddizioni al centro dei progetti coloniali e sfiderò gli avvocati internazionali – in particolari quelli ‘positivisti’ – ad interrogarsi sulle loro ipotesi riguardanti l’occupazione e la sovranità statale.

La metodologia utilizzata è principalmente un’analisi della dottrina in vigore dal XV secolo ai giorni nostri, più una valutazione e un confronto di prassi statali e opinio iuris rilevanti, quali le sentenze di tribunali internazionali. In questo modo si mettono in luce le lacune tra la teoria e la pratica dell’occupazione delle regioni polari e si mette altresì in dubbio la legittimità delle rivendicazioni degli Stati. Infine, si dimostra che l’occupazione Indigena nell’Artico è molto più antica e giuridicamente più forte di quella di qualsiasi stato.

Colonizzazione in teoria e prima pratica

La colonizzazione in entrambi i Poli fu guidata, principalmente, dalla promessa di ingenti ricchezze. Inizialmente, le risorse viventi di balene, foche e pellicce; poi i minerali e, infine, gli idrocarburi.[1]  Ma gli ‘eroi’ dell’epoca dell’esplorazione – e gli stati che li sostenevano – avevano ancora bisogno di una qualche narrativa per giustificare le loro vaste rivendicazioni territoriali.

Gli stati europei – gli unici che avevano il potere di scrivere capitoli di questa storia – avevano convenuto che la semplice conoscenza di un particolare tratto di terra non bastava per dichiararne la sovranità; ci doveva essere anche un certo livello di occupazione effettiva.[2] Anche le Bolle Papali servivano solo a riconoscere e ratificare la situazione de facto. Si potevano piantare bandiere o croci per indicare un arrivo, e forse anche un’intenzione di ritornare, rivendicare, occupare e controllare – ma ciò non bastava per conferire un titolo.[3]

L’arrivo di Cristoforo Colombo a Guanahani dei Caraibi, tuttavia, aumentò notevolmente la posta in gioco. Gli europei capirono subito due cose: c’era un intero continente – anzi due continenti – che non era ancora sotto il controllo di nessuno stato europeo; e c’erano centinaia di civiltà che prosperavano in quel territorio e che non erano favorevoli all’arrivo degli europei.

Questi ultimi avevano bisogno di un capitolo nuovo della loro storia – se non addirittura di una storia completamente nuova. Antony Anghie sostiene che il diritto internazionale non mancasse degli strumenti giuridici per la risoluzione dei problemi sorti dalla colonizzazione delle Americhe, piuttosto quest’ultimo fu creato precisamente allo scopo di produrre una giustificazione per il progetto coloniale. Prima della scoperta del Nuovo Mondo non esisteva un diritto internazionale così come lo intendiamo oggi, perché non ce n’era bisogno.[4]

Il primo giurista a fornire una giustificazione giuridica per la colonizzazione della cosiddetta “Isola della Tartaruga” – ossia le Americhe – fu Francisco de Vitoria. De Vitoria riconobbe subito l’“umanità” intrinseca delle popolazioni originarie di quei luoghi, ma solo fino a un certo punto. De Vitoria ha certamente insistito sul fatto che essi non potevano essere maltrattati senza motivo, ma ha altresì contribuito a creare un motivo per il loro maltrattamento, attraverso la teoria della “guerra giusta”.[5]  Se i nativi si opponevano agli europei che viaggiavano attraverso le loro terre, si opponevano a commerciare con loro, si opponevano a condividerne le risorse, o si opponevano agli sforzi dei nuovi arrivati di convertirli al cristianesimo, allora esistevano le basi legali per una guerra giusta. Questa, a sua volta, giustificava non solo l’uccisione di guerrieri, ma anche la schiavitù di tutti i membri delle società “nemiche” – fossero esse “colpevoli o prive di colpa”. A tutti gli effetti, quando de Vitoria scriveva le sue tesi, la guerra – o le guerre – c’erano già e la teoria fu creata in modo retroattivo per dare loro un’aura di legalità. Fu quindi trovata la “causa” per i maltrattamenti degli indigeni.

Dopo la riforma, gli stati protestanti avevano bisogno di una nuova dottrina. Grozio, Locke e Vattel furono reclutati per scrivere i capitoli successivi della storia che stiamo ricapitolando. Secondo loro, l’occupazione – e quindi il vero titolo dello stato e della sovranità statale – richiedeva la trasformazione della terra – in breve, un’agricoltura stabile e strutture permanenti. [6]

Convenientemente, ma non a caso, molte comunità native adottavano uno stile di vita nomade, prendendo solo ciò di cui avevano bisogno dalla terra, e, considerandosi parte di quest’ultima, non tentavano di esercitare alcun dominio. Le loro terre, insomma, aspettavano solo che una nazione adeguatamente civilizzata le acquisisse per un uso redditizio. Il loro uso della terra era inefficiente e quindi un’altra nazione – più avanzata – aveva il diritto di espropriarla e rivendicarne la sovranità territoriale.

Vattel dice:

Coloro che continuano a perseguire questo ozioso modo di vita, usurpano territori più estesi di quelli che, con una ragionevole quota di lavoro, avrebbero avuto occasione e, quindi, non hanno motivo di lamentarsi, se altre nazioni, più industriose e troppo ristrette, vengono a prendere possesso di una parte di quelle terre.[7]

Ma c’era un avvertimento: come Locke sosteneva che l’individuo non deve possedere più terra di quella che potrebbe coltivare personalmente, parimenti nessuna nazione dovrebbe rivendicare piú terra di quel che ha effettivamente stabilito e non più di quanta sia effettivamente necessaria per soddisfare i bisogni del suo popolo:

Ogni nazione è dunque obbligata dal diritto naturale a coltivare il suolo che ricade sotto il suo dominio; e non è legittimata ad allargare i suoi confini o di ricorrere all’assistenza di altre nazioni, se non solo nella proporzione in cui la terra in suo possesso è incapace di fornirle il necessario.[8]

 

Colonizzazione senza occupazione effettiva

Tornando a parlare delle regioni polari, appare subito evidente che la colonizzazione europea di queste aree mostra ben poca occupazione effettiva. Non era – e non lo é ancora oggi – possibile occupare, cambiare o controllare le vaste distese dei Poli. Inoltre, affermazioni in tal senso non potrebbero in alcun modo essere giustificate come necessarie per provvedere ai bisogni essenziali dei popoli europei.

Al contrario, i colonizzatori dimostrarono la loro occupazione attraverso la toponomastica, la cartografia, la costruzione di strutture di base per il riparo dei naviganti e degli esploratori, l’impossessarsi di risorse e l’esercizio della giurisdizione sui loro cittadini.

Niente, in verità, che gli Indigeni non facessero da secoli in quelle stesse regioni del mondo.

In Canada, I ‘interesse da parte degli stati europei nei riguardi delle isole artiche iniziò alla fine del XIX secolo, in risposta alle preoccupazioni sorte per via delle attività americane e alla caccia da parte degli Inuit della Groenlandia.[9] I britannici iniziarono a rilevare le isole sulle carte nautiche e ad attribuirne i relativi nomi. Tuttavia, persisteva ancora l’idea che l’occupazione legale richiedesse una presenza fisica, e questa idea perdurò anche nel XX secolo. Di conseguenza, furono istituiti quattro postazioni della Royal Canadian Mountain Police: due sull’isola di Baffin, una sull’isola di Ellesmere e uno su quella di Devon.[10] I canadesi trasferirono molti Inuit in insediamenti sparsi nel Nord più remoto, a volte con conseguenze disastrose per le persone coinvolte.

In Groenlandia svariate famiglie di Inuit furono trasferite a più di ottocento chilometri, da Tasiilaq a Ittoqqortoormiit, quale risposta alla crescente attività marittima norvegese sulla costa orientale. In Russia i Nenets furono trasferiti in massa a Novaya Zemlya, a Chuckchi e all’Isola di Wrangel per ottenere la piena sovranità su quei territori.

Nel frattempo, al Polo Sud i britannici fecero la prima rivendicazione formale nel 1908, seguiti da Nuova Zelanda, Francia, Australia, Norvegia, Cile e Argentina – sebbene questi ultimi due paesi basassero le loro pretese sulle Bolle Papali e i trattati europei del XV secolo – quasi quattro secoli prima della scoperta del continente.[11] Anche i Nazisti ci provarono, con spedizioni onde sorvolare, mappare, fotografare, denominare e lanciare bandiere dagli aerei.[12]

Le rivendicazioni territoriali dei sette stati in Antartide non si basarono affatto su alcuna occupazione fisica reale o sulla trasformazione della terra. Ciò sarebbe stato impossibile, date le dimensioni e il clima del continente. Ancora oggi, ci sono poco più di cento stazioni di ricerca – di cui circa ottanta attive – distribuite su quattordici milioni di chilometri quadrati.[13] Ci sono quattromila abitanti durante l’estate – meno d’una piccola università – e circa millecento in inverno.[14] Ci sono meno di cinquantamila turisti l’anno, la maggior parte dei quali trascorre solo alcune ore in un’unica penisola.[15]

Anche nel XX secolo si continuò a ritenere che l’occupazione vera e propria richiedesse qualcosa di più del semplice sventolare una qualsiasi bandiera, ma al contempo andavano crescendo le pressioni dei vari pretendenti in Antartide, così come del Canada e della Russia nell’Artide, il che spinse verso una maggiore flessibilità giuridica nelle regioni polari.[16] Furono effettuati degli scambi impliciti: il riconoscimento della sovranità canadese nell’Artico e l’acquiescenza alla vasta rivendicazione territoriale in quel settore da parte della Russia, in cambio del sostegno alla sovranità antartica degli altri paesi.[17]

Una teoria rivista

Gli stati avevano bisogno di un nuovo capitolo nella storia dell’occupazione. Avviarono quindi dei processi a cui poterono partecipare solo gli stati stessi davanti a giudici quasi esclusivamente europei.

Le sentenze nelle cause relative all’Isola di Palmas, l’Isola di Clipperton e della Groenlandia Orientale sono ben conosciute fra gli esperti di diritto internazionale. Esse hanno evidenziato un passaggio da una teoria oggettiva dell’occupazione a una relativa. Non c’era più bisogno di occupare un territorio in alcun senso fisico; bastava solo che le rivendicazioni dello stato prescelto fossero migliori di quelle di qualsiasi stato rivale.[18]

L’Isola Clipperton era disabitata, mentre i popoli Inuit della Groenlandia e il popolo indigeno dell’isola di Palmas non erano considerati in grado di avere la sovranità sulle terre che avevano occupato per secoli.

L’occupazione effettiva da parte dei popoli indigeni e la sua esclusione dalla storia giuridica

In un breve saggio non è possibile approfondire in dettaglio le prove incontrovertibili dell’occupazione da parte dei popoli indigeni dell’Artico e oltre. Indubbiamente, essi diedero nomi ai luoghi in cui vivevano, produssero mappe e lasciarono molteplici segni della loro presenza. Inoltre disponevano di sistemi giuridici efficienti per governare il comportamento dei membri delle loro società, utilizzavano in maniera accorta le risorse a loro disposizione, curando i più vulnerabili e occupandosi di riparazioni e dello ius in bello. Queste non erano semplici raccolte di norme primarie, come affermato in maniera superficiale da HLA Hart sulla “legge primitiva”.[19] Al contrario, i loro sistemi giuridici avevano e continuano ad avere norme secondarie di riconoscimento, mutamento e di giudizio.[20]

Tuttavia, anche nella Dichiarazione dei Diritti dei popoli indigeni i sistemi giuridici indigeni sono ridotti a “sistemi o istituzioni politiche, economiche e sociali”, “costumi, tradizioni e sistemi di proprietà fondiaria” o “costumi, spiritualità, tradizioni, procedure e pratiche distintive” che, in qualsiasi stato, sarebbero chiamati semplicemente “legge”.[21] Secondo l’articolo trentaquattro, i sistemi giuridici sono riconosciuti “nei casi in cui esistono” – come se questa fosse un’eccezione – ma solo “in conformità con gli standard internazionali sui diritti umani” che sono stati scritti da stati che, sovente, neppure li rispettano![22]

Le prove dell’occupazione indigena sono state escluse sia dal punto di vista procedurale che da quello teorico. Prima di tutto ai popoli indigeni è stato negato l’accesso ai tribunali che erano incaricati di pronunciarsi sulle sentenze delle loro terre. Poiché solo gli stati potevano partecipare in questi processi, non è stato possibile presentare le prove dell’occupazione da parte delle popolazioni native di Palmas o della Groenlandia. Questa esclusione non è un artefatto storico arcaico – essa è stata ripetuta in una Disputa Territoriale (Libia contro Chad) del 1994, così come nel caso delle isole di Chagos nel 2019. [23]

Secondo il punto di vista coloniale, agli Indigeni mancava (anche quando nella pratica non accadeva) l’animus occupandi. In altre parole, non credevano di esercitare il dominio sulle loro terre. Per chiunque abbia anche solo visitato le regioni polari, per non parlare del tentativo di sopravviverci, la mancanza della finzione di poter dominare enormi territori polari è sicuramente un segno di salute mentale. Infatti, come si può esercitare il controllo su centinaia di chilometri quadrati di ghiaccio?

Decolonizzazione e suoi limiti

Le Nazioni Unite sono fondate “sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodecisione dei popoli.”[24] Tuttavia “la sovrana uguaglianza di tutti i suoi Membri” – cioè, degli stati – è preminente.[25]

La risoluzione numero 1541 dell’Assemblea Generale ha definito nel dettaglio i popoli indigeni in maniera tale da porli fuori dalla portata del diritto all’autodeterminazione attraverso la premessa del colonialismo d’“acqua salata”.[26]  I territori non autonomi dovevano includere, a prima vista, quei territori che erano “separati geograficamente e distinti etnicamente oppure culturalmente” dai Paesi che gli amministrano.[27] Il riconoscimento dei paesi coloniali – dunque dei popoli coloniali – fa perno sull’esistenza di mari aperti tra i poteri coloniali e i paesi colonizzati – da qui il termine di coloni d’“acqua-salata”. Il termine “popoli indigeni” indica invece quei popoli colonizzati e circondati dai confini degli stati esistenti e sotto la presunta sovranità statale a cui è stato negato il diritto all’autodeterminazione.

L’indipendenza delle popolazioni originarie delle colonie rimane sottomessa al principio d’integrità territoriale – che in questo caso significa assoluta deferenza verso i confini tracciati dalle stesse potenze coloniali, indipendentemente dai confini naturali o etnici sul terreno.[28]

Le nazioni indigene native dell’Europa artica (inclusa la Russia) furono così escluse per definizione, in quanto erano governate da stati coloniali in territori contigui. Il Canada aveva iniziato come colonia di “acqua salata”, ma al momento dell’indipendenza dal Regno Unito e dalla Francia, i popoli nativi risultarono notevolmente meno numerosi rispetto ai colonizzatori e ai loro discendenti. Quando l’Alaska entrò a far parte degli Stati Uniti d’America nel 1959 gli indigeni erano meno del 20% della popolazione totale. Ne consegue che gli indigeni facevano parte di uno stato coloniale contiguo e pertanto fu loro negato il riconoscimento come popoli coloniali aventi diritto all’autodeterminazione. La Groenlandia invece era stata inizialmente registrata come colonia dalla Danimarca, ma successivamente ed apparentemente decolonizzata attraverso l’integrazione con la Danimarca nel 1953.[29]

Il principio uti possidetis è stato ripetutamente riconfermato dalla Corte Internazionale di Giustizia e dal Tribunale internazionale per il diritto del mare, anche nei casi delle Isole di Chagos.[30] Nonostante la spesso citata opinione contraria del giudice Dullard nel caso del Sahara Occidentale, il territorio continua a determinare il destino di un popolo in un modo molto profondo.[31] Il Popolo e lo stato sono uniti come una cosa sola e i popoli Indigeni vengono lasciati indietro in una nuova forma di colonizzazione.[32]

Il rigoroso rispetto dei confini dell’era coloniale lascia centinaia di nazioni come popoli colonizzati, ma poi non riconosciuti come popoli coloniali con il diritto alla decolonizzazione: questi sono i nostri popoli indigeni di oggi. Sebbene soddisfino i quattro criteri essenziali per la statualità, essi sono relegati al ruolo di giocatori di secondo livello nel diritto e nelle relazioni internazionali. Per definizione, i popoli indigeni preesistono allo stato moderno e non avrebbero potuto essere creati dagli stati.[33] Tuttavia il colonialismo li escluse “per definizione” dal diritto internazionale e li ha dovuti poi ricreare come una categoria giuridica apposita.

I diritti degli indigeni come premio di consolazione

I diritti degli indigeni – presumibilmente concessi dagli stati – sono una copertura per l’occupazione in corso dei territori indigeni e la negazione del loro diritto alla decolonizzazione sulla base della parità con gli altri popoli. I loro diritti non sono “diritti speciali” o “straordinari” di cui godono solo i popoli indigeni, e non sono un’azione affermativa per compensare secoli di discriminazione. Piuttosto sono diritti ridotti e limitati all’autodeterminazione rispetto alle altre nazioni del mondo. Come dice Patrick Macklem: “É un processo continuo di esclusione e inclusione nella misura in cui continua a ricondurre i popoli indigeni sotto il potere sovrano di stati non di loro creazione”.[34] Il quadro dei diritti degli indigeni tenta di proteggere questi popoli da alcuni dei peggiori abusi storicamente commessi contro di loro, senza però contestare il modello di sovranità statale (esclusivo) che nega loro la personalità giuridica originale e li rende vulnerabili in primo luogo.

I diritti dei popoli indigeni sono un “premio di consolazione” per essere stati lasciati indietro dal processo di decolonizzazione. Non sono diritti umani ‘plus’ ma autodeterminazione ‘minus’.

L’occupazione effettiva nel XXI secolo

Prima di terminare, vorrei ritornare al discorso dell’occupazione effettiva nelle regioni polari. La sovranità è un argomento delicato in Antartide, ma vediamo come il discorso può essere sviluppato nei termini di chi può esercitare il controllo e, infine, in quali termini.

In un ulteriore allontanamento dal principio dell’occupazione effettiva, i colonizzatori in entrambi i poli – ma soprattutto in Antartide – insistono sulla loro preminenza sulla base della promessa di non occupare e di non trasformare la terra, con il risultato di escludere del tutto la presenza e l’impronta ecologica antropogenica.[35] Solo le potenze coloniali possono essere considerate affidabili per proteggere le grandi “terre selvagge” ai poli della Terra – soprattutto di fronte alle minacce percepite da nuovi attori globali come la Cina.[36]

Anche la sovranità per non occupazione è ben conosciuta al Nord. Nel 1969 il primo ministro Pierre Trudeau giustificava la vasta rivendicazione del Canada sull’arcipelago artico e sul passaggio a Nord-Ovest parlando a lungo dell’importanza della protezione ambientale.[37] È vero che la nuova area di conservazione marina nazionale di Tallurutiup Imanga fu creata in stretta collaborazione con gli Inuit dell’area e gestita congiuntamente. Tuttavia, essa è stata intesa dalle autorità canadesi quale strumento per “servire come una chiara dimostrazione della sovranità canadese sul passaggio a Nord-Ovest”.[38]

Conclusione

Questo mio breve intervento mirava ad illustrare in maniera concisa le giustificazioni giuridiche dell’occupazione, iniziata e resa necessaria dalla colonizzazione dell’Isola della Tartaruga. Per negare l’esistenza delle numerose civiltà nelle Americhe, gli europei crearono una dottrina di occupazione effettiva che richiedeva la trasformazione fisica e un uso “efficiente” della terra. In ogni caso, una tale occupazione nelle regioni polari era impossibile per i popoli Europei. Pertanto, le potenze europee hanno dovuto creare nuove teorie, rivolgendosi alla produzione dottrinale dei tribunali che legittimavano così il loro dominio. i popoli indigeni sono stati cancellati dalla storia e hanno dovuto essere “reinventati” nella seconda parte del XX secolo. Lasciati indietro dai processi di decolonizzazione delle Nazioni Unite, ai popoli indigeni sono stati riconosciuti diritti ridotti e limitati. Tuttavia, questi diritti sono molto lontani dalla piena autodeterminazione di cui godono altri popoli colonizzati che hanno avuto il diritto di sfuggire alla colonizzazione.

Per concludere, l’occupazione da parte degli stati delle regioni polari fallì nei termini stabiliti da quegli stessi stati. In tutta risposta, questi ultimi hanno cambiato i termini giuridici, continuando a escludere l’occupazione indigena, sia nella teoria sia nella pratica. In un completo capovolgimento delle prime giustificazioni per la colonizzazione, gli stati ora mostrano il dominio nelle regioni polari attraverso misure ambientali che impediscono o riducono al minimo l’occupazione. Nell’ultima manifestazione di questo processo di riscrittura dei termini giuridici non è richiesta alcuna presenza fisica, ma basta una promessa di escludere qualsiasi presenza fisica in assoluto. Così, la storia dell’occupazione ritorna al punto di partenza, ma a testa in giù. Allo stesso tempo, i popoli indigeni dell’Artico, i cui rapporti con quella terra sono più lunghi e più forti degli stati che pretendono di governarli, sono stati cancellati dalla storia. I loro diritti non sono protezioni speciali, ma una foglia di fico per negare la loro autodeterminazione sulla stessa base degli altri popoli.

[1] Rachael Lorna Johnstone e Scott Joblin, “Non-Living Resources at the Poles,” in Research Handbook on Polar Law, Karen Scott og David VanderZwaag, ed. (Cheltenham: Edward Elgar, 2020), 249.

[2] Friedrich August Freiherr von der Heydte, “Discovery, Symbolic Annexation and Virtual Effectiveness,” in  International Law,” American Journal of International Law 29(3) (1935): 448, 450-51.

[3] Ibid, 453-55.

[4] Antony Anghie, Imperialism, Sovereignty and the Making of International Law (Cambridge: Cambridge University Press, 2004), 15 e 29.

[5] Ibid, 24

[6] Hugo Grotio, Mare Liberum (1609), trans. Richard Hakluyt (Indianapolis: Liberty Fund, 2004), 13-15, 24 e 27; John Locke, Two Treatises of Government (1689, 1764), Thomas Hollis, ed. (London: A Miller et al., 1764), disponibile presso Liberty Fund E-Books, https://oll.libertyfund.org/page/john-locke-two-treatises-1689, Chapter V, “On Property,” paragrafi 32 and 40; Emer de Vattel, The Law of Nations, Or, Principles of the Law of Nature, Applied to the Conduct and Affairs of Nations and Sovereigns, 6° ed. (Philadelphia: Johnson, Law Booksellers, 1844), 34-36, Libro 1, Capitolo VII, sezioni 78-82.

[7] de Vattel, The Law of Nations, 100, Libro 1, Capitola XVIII, sezione 209.

[8] Ibid, sezione 208

[9] Documents on Canadian External Relations: The Arctic 1874-1949, Janice Cavell and Joel Kropf, ed. (Ottawa: Global Affairs Canada, 2016), xvi-xvii.

[10] Ibid xxvi.

[11] Alejandra Mancilla, “The Moral Limits of Territorial Claims in Antarctica,” Ethics and International Affairs 32(3) (2018): 339, 347.

[12] Shirley Scott, “Antarctic: Competing Claims and Boundary Disputes,” in Research Handbook on Polar Law, 152-153. (La Germania rinunciò alle pretese del dopoguerra. Nonostante alcune esplorazioni, il Giappone non presentò mai una rivendicazione formale rinunciando a qualsiasi potenziale rivendicazione negli accordi del dopoguerra.)

[13] Alejandra Mancilla, “Four Principles to Justify Claims to Jurisdiction and to Natural Resources in Antarctica,” 11th Yearbook of Polar Law (2019) 170-191; Alan D Hemmings, “Antarctic Politics in a Transforming Global Geopolitics,” in Handbook on the Politics of Antarctica, Klaus Dodds, Alan D Hemmings e Peder Roberts, eds. (Cheltenham: Edward Elgar, 2017), 507-522.

[14] Antje Neumann, Wilderness Protection in Polar Regions (Leiden: Brill, 2020), 77.

[15] Ibid, 81.

[16] Shirley Scott “Three Waves of Antarctic Imperialism,” in Handbook on the Politics of Antarctica, 41;

Canada Arctic Documents, xxvii-xxviii.

[17] Canada Arctic Documents, xxviii-xxx.

[18] Sentenza abritrale del 4 aprile 1928 nel caso dell’Isola di Palmas (Stati Uniti c. Paese Bassi), Corte permanente di arbitrato, arbitro Huber, 2 RIAA 829; Sentenza arbitrale del 28 gennaio 1931 nel caso dell’Isola de Clipperton (Messico c. Francia), arbitro Vittorio Emanuele III, UNRIAA, Vol. II, 1105; Sentenza della Corte permanente di giustizia internazionale del 5 aprile 1933 nel caso dello Status della Groenlandia Orientale (Danimarca v. Norvegia) 1933, P.C.I.J. (ser. A/B) no. 53.

[19] HLA Hart, The Concept of Law, II ed. (Oxford: Clarendon, 1997), 91-92.

[20] Ad semipro; Commission on Human Rights, Sub-Commission on Prevention of Discrimination and Protection of Minorities, Study on Treaties, Agreements and Other Constructive Arrangements Between States and Indigenous Populations, First Progress Report, by Alfonso Martínez, Special Rapporteur, 1992, UN doc. E/CN.4/Sub.2/1992/32, para 147; Resurgence and Reconciliation: Indigenous-Settler Relations and Earth Teachings, Michael Asch, John Borrows and James Tully, eds. (Toronto: University  of Toronto Press, 2018); Christina Allard and Susan Funderud Skogvant, Indigenous Rights in Scandinavia: Autonomous Sami Law (Abingdon: Routledge, 2016); Mariano Aupilaarjuk, et al., Interviewing Inuit Elders: Perspectives on Traditional Law (Iqaluit: Nunavut Arctic College, 1999).

[21] Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni, Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite 61/295, 13 settembre 2007, e.g., articoli 20, 27 e 34.

[22] Ibid, articolo 34.

[23] Sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 3 febbraio 1994 nel caso relativo alla Controversia territoriale (Libia v Ciad) 1994 ICJ Rep 6; Parere consultivo della Corte internazionale di giustizia del 25 febbraio 1999 nel caso relativo alle Conseguenze legali della separazione dell’arcipelago Chagos da Mauritius nel 1965, 2019 ICJ Rep 95. Si veda anche Rachael Lorna Johnstone, “From the Indian Ocean to the Arctic: What the Chagos Archipelago Advisory Opinion tells us about Greenland,” 12th Yearbook of Polar Law 12 (2020): 308.

[24] Carta delle Nazioni Unite, 24 ottobre 1945, United Nations Treaty Series 1 (1945): XVI, articolo 1(2).

[25] Ibid, articolo 2(1).

[26] Trasmissione di informazioni ai sensi dell’articolo 73 e della Carta, Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite 1541 (XV), 15 dicembre 1960.

[27] Ibid, principio IV.

[28] Dichiarazione per la garanzia dell’indipendenza dei Paesi e dei popoli coloniali, Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite 1514, 14 dicembre 1960, para 6; Principi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione tra gli Stati; Normativa, Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite 2625, 24 ottobre 1970, A/RES/2625 (XXV); Conseguenze legali della separazione dell’arcipelago Chagos da Mauritius nel 1965.

[29] Cessazione della trasmissione di informazioni ai sensi dell’articolo 73 sexies della Carta nei confronti della Groenlandia, Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite 848 (IX), 22 novembre 1954.

[30] Conseguenze legali della separazione dell’arcipelago Chagos da Mauritius nel 1965; si suggerisce la visione di: Johnstone, “From the Indian Ocean.”

[31] Parere consultivo della Corte internazionale di giustizia del 16 ottobre 1975 Sahara Occidentale, ICJ Reports 1975: 2, opinione separato da Dillard, 116, 112.

[32] Matthias Åhrén, Indigenous Peoples’ Status in the International Legal System (Oxford UP, 2016), 35-37.

[33] Irene Watson, Aboriginal Peoples, Colonialism and International Law: Raw Law (Abingdon: Routledge, 2015), 94 e 145.

[34] Patrick Macklem, “Indigenous Recognition in International Law: Theoretical Observations,” Michigan Journal of International Law 30(1) (2008): 177, 186. Testo originale: “It is an ongoing process of exclusion and inclusion to the extent that it continues to subsume indigenous populations under the sovereign power of States not of their making.”

[35] Kees Bastmeijer, “Introduction,” in Wilderness Protection in Europe: The Role of International, European and National Law, Kees Bastmeijer, ed. (Cambridge: Cambridge University Press, 2016), in particolare 31 per la definizione IUCN di terre selvagge (wilderness), incluso “senza abitazione umana permanente o significativa”. Testo originale: “without permanent or significant human habitation.”

[36] Convenzione sulla regolamentazione delle attività delle risorse minerarie antartiche, 2 giugno 1998 (non in vigore), International Legal Materials 27 (1988): 868 (CRAMRA), articola 2(3). Vedasi anche il Protocollo sulla protezione ambientale al Trattato Antartico, 4 ottobre 1991, International Legal Materials 30 (1992): 1461 (Madrid Protocol), articolo 3, Annex III articolo 3, e Annex V, articolo 3.

[37] Canada, Dibattiti della Camera dei Comuni, 28° Parlamento, 2a sessione, vol. 1, 24 ottobre 1969, 39.

[38] Catherine McKenna, Joe Savikataaq e J. Akeeagok, “A National Marine Conservation Area Proposal for Lancaster Sound: Feasibility Assessment Report,” febbraio 2017, https://www.qia.ca/wp-content/uploads/2017/08/NMCA-Propossal-for-Lancaster-Sound-ENG-April-4.pdf, 17. Vedasi anche  Margaret Moore, “Is Canada Entitled to the Arctic?,” Canadian Journal of Philosophy (2019): 1, doi: 10.1017/can.2019.8, 12-13 (in cui si sostiene che la gestione è una giustificazione per la sovranità sull’Artico canadese, ma anche che lo stato più prossimo, il Canada, è in una posizione migliore per svolgere questo ruolo rispetto agli Inuit).