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Il popolo Indigeno dei Sámi e la Conoscenza Ecologica Tradizionale: difficoltà e lezioni da imparare nel XXI secolo

  1. Introduzione: chi sono i popoli indigeni?

Chi non si occupa di diritti umani o questioni indigene può ancora credere che i popoli indigeni abitino terre lontane, abbiano usi e costumi antichi e a volte rudimentali, che non abbiano nulla o poco a che fare con la cultura occidentale contemporanea e soprattutto che abbiano poco o nulla da insegnare.

Questo articolo si pone l’obiettivo di presentare la cultura indigena e soprattutto quella del popolo indigeno Sámi e osservare quanto questa abbia tanto da insegnare, soprattutto in ambito socio-cultural e ambientale europeo.

In primo luogo, cosa significa ‘indigeno’ in questo contesto? La parola ‘indigeno’ è sinonimo di autoctono, nativo, originario del luogo. Si riferisce alle popolazioni indigene come i Maori in Nuova Zelanda, i Kichwa in Equador, i popoli nativi nel Nord America come i Lakota, oppure i Maasai in Tanzania e agli aborigeni australiani. La parola ‘aborigeno’ è talvolta utilizzata come sinonimo di ‘indigeno’. Altre volte ci si può riferire ai popoli indigeni come popolazioni tribali, o tribù, popoli autoctoni, indios, nativi o popolazioni native e questo dipende dalla storia e dalla cultura del luogo; in questo articolo userò la denominazione di indigeno o popoli indigeni per facilitare la comprensione della lettura.

Ma chi sono i popoli indigeni? Ad oggi non vi è una definizione univocamente accettata nel contesto globale. I popoli indigeni hanno ripetutamente fatto richiesta di essere annoverati come tali, richieste che purtroppo non sono ancora state accettate. I grandi Stati, tanto è vero, non hanno ancora voluto prendere posizione in merito, nonostante l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) abbia identificato criteri abbastanza chiari come: l’auto-identificazione come popolo indigeno, continuità storica con le società pre-coloniali; forte legame con i territori e le risorse naturali circostanti; sistemi sociali, economici o politici distinti; lingua, cultura e credenze distinte; sforzo di mantenere i propri ambienti naturali sani e riprodurre i sistemi ancestrali come popoli e comunità distinti dalla società dominante (ONUGA 2007).

Quesito fondamentale alla base di questo articolo è che cosa i popoli indigeni nel XXI secolo ci possano insegnare e soprattutto i popoli Sámi in un contesto socio-culturale e ambientale europeo?

Per rispondere a questa domanda, l’ articolo presenta una panoramica dei popoli Sámi, del loro territorio, delle loro pratiche di sostentamento tradizionali che riguardano principalmente l’allevamento semi-nomade delle renne e la pesca del salmone. Inoltre, l’analisi include la conoscenza ecologica tradizionale Sámi e del rapporto conflittuale di questo tipo di sapienza con la scienza ufficiale. Nel sottolineare l’importanza del territorio in cui vivono tradizionalmente i Sámi e la connessione con la conoscenza ecologica tradizionale, mi propongo di porre all’attenzione del lettore sui diversi tentativi indigeni e non-ingigeni di presentare la complessità di definire che cos’è la conoscenza tradizionale indigena.

Metodologicamente questo articolo è il frutto di una revisione letteraria sulla cultura Sámi e raccoglie studi e articoli precedenti dall’autrice per la prima volta in italiano. La nuova prospettiva presentata in questo articolo riguarda: la relazione tra la conoscenza ecologica tradizionale Sámi e la scienza accademica convenzionale, il loro incontro-scontro e soprattutto la critica neocoloniale (sezione 5) che evidenzia discriminazioni del sapere non-accademico ufficiale, come la conoscenza ecologica tradizionale Sámi. Questa critica sulla formazione del sapere ha l’obiettivo di ampliare il potenziale epistemologico e promuovere modi alternativi di produzione di conoscenza.

  1. I Sámi, la storia e il loro territorio

I Sámi – scritto anche ‘Saami’ – sono considerati l’unico popolo indigeno ufficialmente riconosciuto in Unione Europea, secondo i criteri dell’ONU e dell’OIL (Orgnizzazione Internazinale del lavoro)[1]. Molti gruppi minoritari in Europa, come ad esempio i baschi in Spagna e i popoli rom, hanno ripetutamente chiesto di essere introdotti nella lista dei popoli indigeni. Richieste che fino ad ora non sono state accolte poichè alcuni stati europei non hanno ancora voluto prendere posizione nonostante i criteri ONU precedentemente citati come l’auto-identificazione come popolo indigeno, la continuità storica con le società pre-coloniali, ecc. (ONUGA 2007).

I Sámi erano più comunemente conosciuti con la designazione di Lapponi, ovvero col nome che la popolazione dominante – popolazione maggioritaria o i colonizzatori – avevano dato a questo popolo, mentre Sámi è il nome che loro stessi si sono scelti e col quale è più giusto e corretto riferirsi a loro.

I Sámi originariamente hanno abitato, e ancora abitano, da tempi immemorabili nel profondo nord, in una regione chiamata Sápmi – che prende appunto il nome da questi popoli – la quale si estende nel nord della Fennoscandia, ovvero nel nord della Norvegia, della Svezia, della Finlandia e nel nord-ovest della Confederazione Russa (Britannica 2020; Groth and Lassinati 1982). Questa regione non ha confini ben precisi ed è andata sempre più riducendosi a causa di diversi fattori quali: il cambiamento climatico, il disboscamento, le centrali idroelettriche, lo sviluppo del turismo (Kyllönen et. al. 2006, 695–697), l’avanzamento di industrie estrattive (quali estrazione del petrolio, di gas naturale, di diversi minerali, ecc.) che hanno sempre più limitato lo sviluppo dei mezzi di sussistenza tradizionale Sámi. Questo territorio, Sápmi appunto, è comunemente, ed erroneamente, conosciuto come Lapponia, soprattutto dalla popolazione maggioritaria[2].

L’ambiente naturale dei territori tradizionali Sámi costituisce un elemento fondamentale per i Sámi, poichè strettamente legato ai mezzi di sussistenza tradizionali, quali l’allevamento della renna e la pesca del salmone. Il legame con la terra si estrinseca soprattutto: nell’uso sostenibile delle risorse naturali, in un’attitudine di grande rispetto, gratitudine e interscambio con l’ambiente naturale e con tutti i suoi elementi, viventi e non- viventi. Difatti, proprio grazie allo stile di vita sostenibile delle popolazioni indigene del Pianeta, l’80% della biodiversità globale si trova nei territori tribali, o indigeni, poichè, secondo un articolo del National Geographic, i popoli indigeni sono tra i migliori conservazionisti al mondo (Raygorodetsky 2018). Anche l’organizzazione Right and Resources Initiative (RRI), ha prodotto moltissimi studi negli ultimi anni su come i popoli indigeni che vivono sul territorio ancestrale contribuiscano a mantenere la biodiversità ma anche una migliore gestione del territorio (RRI and McGill University 2021)[3].

Queste popolazioni abitano nella regione di Sápmi da almeno 5000 anni e probabilmente anche da più a lungo, ma non vi è un consenso unanime tra i ricercatori per ciò che riguarda questa datazione. Certamente vero è che i Sámi abitano questi territori da molto prima della formazione degli stati-nazioni, quali la Norvegia, la Svezia, la Finlandia e la Russia. Lo scrittore latino Tacito (98 a.C.), infatti, fu il primo a menzionare i Sámi, con il nome latino di Fenni, già nel 98 a.C.

I Sámi sono suddivisi in comunità ognuna della quali ha le proprie tradizioni specifiche. Le diverse lingue Sámi derivano dal ceppo linguistico degli Urali, chiamate anche lingue uraliche. Nel nord della Finlandia ad esempio vi sono: lo Skolt Sámi, parlato nel nord-est, l’Inari Sámi, tipico della zona circostante la città di Inari e il Sámi del Nord, o Sámi settentrionale, che è il più parlato (AHDR II 2015, 116-17), ma altre lingue Sámi sono presenti e parlate nelle altre parti della regione, sebbene alcune siano in pericolo di estinzione.

Come popoli minoritari, i Sámi hanno subìto diversi tipi di discriminazione diretta e indiretta durante gli anni: come le politiche di integrazione forzata attraverso l’istruzione dei bambini, o le politiche di “norvegizzazione”, ovvero l’assimilazione forzata dei Sámi alla popolazione norvegese, l’Istituto di biologia raziale nazionale per la sterilizzazione delle donne Sámi in Svezia, come anche le politiche di sottrazione forzata delle terre Sámi per censo, favorendo la popolazione non-Sámi che viveva nel nord della Fennoscandia (Minde 2005).

Ad oggi è quindi difficile definire quanti Sámi vi siano, poiché molti discendenti Sámi preferiscono non registrarsi come tali proprio per le prolungate discriminazioni da parte della popolazione maggioritaria non-Sámi. In Finlandia ad esempio, si dice che vi siano più Sámi a Helsinki, la capitale, che in tutto il resto del Paese, trasferitisi principalmente per ragioni lavorative e di istruzione (EMRIP 2019, 12)[4].

  1. Le pratiche di sostentamento tradizionale Sámi

Non tutti i Sámi al giorno d’oggi vivono secondo gli usi e costumi tradizionali, molti di loro si sono mescolati tra le popolazioni nordiche, assorbendone usi, costumi e modi di vivere, abbandonando in tal modo le proprie tradizioni indigene. I Sámi, che preferiscono vivere secondo gli usi a costumi tradizionali, indossano abiti Sámi colorati; i diversi colori e le decorazioni simboleggiano le diverse comunità di appartenenza. Altrettanto tradizionali sono le pratiche di sostentamento Sámi che differiscono a seconda dell’ambiente circostante di ogni comunità, come: corsi d’acqua, laghi, mari ma anche tundra, montagne, foreste ecc. Ma le pratiche di sostentamento Sámi più caratteristiche sono l’allevamento semi-nomade della renna (Åhrén 2016, 281) e la pratica della pesca del salmone (Pedersen 2016, 281). Oltre a queste pratiche tradizionali principali, che sono profondamente legate all’identità Sámi come popolo indigeno, vi sono altre attività praticate attivamente a seconda della stagione e del ciclo naturale. Esempi di queste attività sono: la pesca del merluzzo (soprattutto per i Sámi che vivono sulla costa o vicino a corsi d’acqua), la caccia della selvaggina come alci e volpi, oppure la caccia di uccelli selvatici come la pernice bianca, così anche l’allevamento del bestiame come capre e pecore (Backman et al. 2016, II: 281-2), la raccolta di funghi, frutti di bosco come il mirtillo artico blu, il mirtillo rosso e la mora artica, erbe e spezie come ad esempio l’acetosella, l’arcangelica e la cicerbita violetta (Nilsson et al. 2011, 307–309). In pubblicazioni precedenti in lingua inglese, ho argomentato che le pratiche di sostentamento tradizionali Sámi sono profondamente legate all’identità Sámi come popoli indigeni e di conseguenza devono essere salvaguardate e protette (Casi 2019, 208; Casi 2020).

Negli ultimi anni gli usi, i costumi e lo stile di vita tradizionali Sámi sono andati via via modificandosi, finendo per adattarsi sempre più allo stile di vita moderno dei Paesi nordici, a tal punto che alcune attività tradizionali purtroppo sono scomparse (Sissons 2005, 140), come ad esempio attività legate ai tamburi traditionali Sami.

  1. La conoscenza ecologica tradizionale e il mondo scientifico

Recentemente vi è stato un rinnovato interesse per la Tradizional Ecological Knowledge (TEK), tradotto in italiano come conoscenza ecologica tradizionale riguardante i popoli indigeni, nell’ambito sia scientifico-accademico (Camerlenghi 2021) sia della cultura popolare.

La conoscenza ecologica tradizionale è la conoscenza tipica e unica di una comunità indigena o di un gruppo culturale che vive a stretto contatto con l’ambiente naturale circostante; essa si riferisce a un corpo di conoscenze non scritte, cha cambiano continuamente e che si trasmettono oralmente di generazione in generazione (Casi, Guttorm, Virtanen 2021; Berkes 1999/2012). Essa offre informazioni circa l’ambiente fisico e biologico di un luogo specifico (Henriksen 2011, 78); è profondamente legata a uno specifico territorio, e precisamente all’ambiente naturale in cui la comunità indigena si trova, per questo lo stimato ricercatore Fikret Berkes la definisce una conoscenza ‘situata’ (Berkes 1999/2012; Weir 2009) perché osservata e appresa in uno specifico luogo. Ha inoltre un valore non solo culturale ma anche spirituale (UNFCCC 2013, 24). Secondo la professoressa indigena Deborah McGregor, la conoscenza ecologica tradizionale non è solo semplice sapere riguardante i fenomeni naturali ma molto di più (McGregor 2004). E’ un approccio olistico alla natura e a tutti gli elementi viventi, e non- viventi, che la compongono; è un ‘modo di vita’, è una relazione personale (LaDuke 1997, 35) con l’ambiente naturale circostante, è tramandata di generazione in generazione ed è acquisita gradualmente attraverso la costante pratica quotidiana (McGregor 2004, 396) in un lungo lasso temporale. Non è un sapere statico ma dinamico, sempre in evoluzione e a passo con i tempi e con i costanti cambiamenti naturali and antropogenici. La conoscenza ecologica tradizionale è un modo di conoscere il mondo (Simpson 2001, 137-148), anzi è essa stessa una visione del mondo (Berkes 1999/2012, 5).

Ci sono stati tentativi indigeni e non-indigeni di definire la nozione di conoscenza ecologica tradizionale. Mentre, da un lato, le interpretazioni non-indigene sono parziali e incomplete, in quanto tralasciano aspetti significativi (Casi, Guttorm, Virtanen 2021), e ne offrono un approccio a volte coloniale, dall’altro lato, i punti di vista indigeni ne presentano un approccio olistico e più completo, che sottolinea l’interconnessione ambiente naturale ed esseri umani come qualcosa di inseparabile gli uni dagli altri (McGregor 2004, 394–95; Roberts 1996, 115). McGregor ha inoltre argomentato che la conoscenza ecologica tradizionale non è solo sapere sulla profonda connessione, ma piuttosto è la relazione stessa tra esseri umani e natura, così come il modo in cui un individuo si rapporta al mondo (McGregor 2004, 394). Infatti, la conoscenza ecologica tradizionale indigena è legata a sistemi sociali che identificano ciò che esiste nel mondo (ontologie), il modo di produzione della conoscenza così come cosa può essere conosciuto (epistemologie) (Casi, Guttorm, Virtanen 2021) ma anche la visione del mondo (cosmologia).

Arbediehtu è la parola, nella lingua Sámi del Nord, che identifica la conoscenza ecologica tradizionale ed è conoscenza ereditata (Porsanger and Guttorm 2011, 14, 17) dai propri avi e dagli anziani della comunità. Il profondo rispetto per la natura si manifesta nei popoli Sámi in diversi modi, non solo considerando con attenzione i cicli naturali ma anche lasciando un luogo come lo si è trovato e utilizzando ogni parte di un animale, ad esempio la renna che è fondamentale per la cultura Sámi (Casi, Guttorm, Virtanen 2021). Infatti, i Sámi ne mangiano la carne, ne usano la pelle e le ossa per farne pellicce, scarpe, vestiti ma anche accessori e ornamenti decorativi (Casi 2019, 208). L’attento rispetto per l’ambiente naturale si mostra anche nel riconoscimento dei Sami della dimensione spirituale degli animali, così come i territori e altri elementi naturali considerati generalmente inanimati, per i Sámi hanno in realtà spirito, valori, emozioni, un proprio modo di comunicare e di prendersi cura di altre parti della natura (Helander-Renvall 2016).

Tuttavia, nell’ambito della scienza occidentale, la conoscenza tradizionale ecologica è spesso non valorizzata e considerata inesatta poiché manca di un approccio di misurazione quantitativo e sistematico (Casi, Guttorm and Virtanen 2021) e per questo spesso non è riconosciuta come una scienza esatta. Pertanto, la conoscenza tradizionale ecologica è ritenuta non adatta, o non abbastanza precisa, in molti ambiti accademici convenzionali, scientifici e anche decisionali.

Nel caso dei popoli Sámi, la conoscenza ecologica tradizionale è anche legata ai mezzi di sussistenza quali l’allevamento delle renne, la pesca, la caccia, la raccolta di funghi, erbe e frutti di bosco, artigianato tradizionale così come il muoversi agilmente nelle foreste artiche, la conoscenza di alture, fiumi, laghi e del mare artico (Casi, Guttorm and Virtanen 2021). Proprio per questa connessione con i loro mezzi di sussistenza, la conoscenza ecologica tradizionale Sámi è a rischio a causa del degrado ambientale e del cambiamento climatico che influenza negativamente i popoli indigeni, come quello Sámi (UNFCCC 2013, 30; Casi 2020, 123). Così pure il riscaldamento del Mare Artico – le cui temperature aumentano quasi il doppio rispetto alle medie globali; secondo il quotidiano britannico The Guardian, ad esempio, il 6 luglio 2021, la Lapponia ha registrato la temperatura più alta (33,6° C) mai registrata dal 1914 (Cox et al. 2021)- e il conseguente scioglimento dei ghiacci marini mettono ulteriormente a rischio le attività di sostentamento tradizionale Sámi come la pesca (Amiel 2019).

Questi cambiamenti sono estremamente significativi non solo per i Sámi ma per la biodiversità di tutto il pianeta. La perdita della conoscenza ecologica tradizionale indigena è infatti enumerata tra le perdite e i danni non-economici (NELD) nel documento FCCC/TP/2013/2 delle Nazioni Unite, che riguarda il deterioramento non-economico del cambiamento climatico (UNFCCC 2013, 4, 12, 24, 30). Nello stesso documento si fa riferimento al fatto che, a causa degli inverni particolarmente miti, le renne del nord Europa faticano a trovare licheni, cibo favorito e fonte vitale per questi animali. Le conseguenze di questo fatto sono il declino del numero delle renne, la difficoltà degli allevatori di renne e il conseguente danno alla cultura Sámi, primariamente incentrata sull’allevamento di questi animali (United Nations Permanent Forum on Indigenous Issues 2008).

  1. Sapere scientifico e conoscenza ecologica tradizionale:

un incontro-scontro di saperi

Il periodo tra gli ultimi decenni del XX secolo e i primi anni del XXI secolo ha visto diverse mobilitazioni con lo scopo di opporre resistenza alla globalizzazione e al capitalismo neo-liberale, in parte responsabili di crisi come quella ecologica, sociale, economica, ma con il comune obiettivo di giustizia sociale (Notes from Nowhere 2003). Queste ondate di mobilizzazione hanno dato vita a una critica contro le limitazioni e le ineguaglianze strutturali del sistema globale e, allo stesso tempo, a una sensibilizzazione in ambito accademico per cui alcuni ricercatori hanno cominciato a criticare il positivismo e le premesse epistemologiche della conoscenza – come la classica divisione tra soggetto e oggetto, tra esseri umani e natura, le differenze tra uomini e donne ecc. – da diversi punti di vista, come quello: femminista, degli studi di genere, degli studi sullo sviluppo, studi sulla disabilità e studi post-coloniali, solo per citarne alcuni. Nel mondo accademico occidentale, i fondamenti del pensiero dominante occidentale sono basati su un pensiero binario che viene dall’Illuminismo, come: natura/cultura, corpo/mente, maschile/femminile, ecc.

Parafrasando George Orwell (1945/2016) che nel suo famoso romanzo La fattoria degli animali scrive che “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali di altri” scopriremo che possiamo trasporre la critica orwelliana della classe dominante sul resto della popolazione umana in ambito epistemologico. Ovvero, se proviamo infatti a sostituire la parola ‘conoscenze’ con ‘animali’ risulterà la frase che ‘tutte le conoscenze sono uguali, ma alcune conoscenze sono più uguali di altri’. Con questo piccolo gioco di parole vorrei evidenziare il fatto che ci sono tipi di conoscenze, come quella scientifica e accademica convenzionale, che sono privilegiate rispetto ad altri tipi di sapere non ufficialmente riconosciuti, tra i quali troviamo la conoscenza ecologica tradizionale indigena. Gurminder Bhambra (2017), professoressa di studi post-coloniali, suggerisce infatti che questo approccio è radicato nelle strutture del pensiero coloniale, il quale non mette tutte le conoscenze sullo stesso piano nell’ambito accademico globale, perciò le discrimina.

Queste critiche neocoloniali sulla produzione epistemologica convenzionale hanno lo scopo di ampliare le possibilità epistemologiche e promuovere modi alternativi di produzione del sapere.

In questo contesto, diverse comunità indigene hanno criticato l’uso della cultura occidentale troppo spesso additato come sapere universale, nei parametri della ricerca etica – soprattutto in ambito accademico – che si è diffusa in tutto lo strato sociale e culturale occidentale, determinando in questo modo meccanismi decisionali, che si promuovono come universali ma che sono in realtà parziali, e relativi al mondo occidentale (Hudson 2009, 125). I principi etici della ricerca dovrebbero essere universali in natura ma finisco per essere molto spesso incompleti e relativi alla cultura dominante occidentale, che quindi si manifesta come prospettiva coloniale e dispotica.

In contrapposizione a queste tradizionali forme di conoscenza, c’é stata una promozione delle pratiche di co-produzione del sapere (Conway 2004; Casas-Cortez et al. 2008; Cox and Forminaya 2009) ad esempio tra ricercatori accademici e esperti indigeni in progetti di mappatura del territorio regionale e osservazione dei cambiamenti di ecosistemi locali. In questo ambito sono scaturiti diversi lavori che promuovono la conoscenza ecologica tradizionale indigena, assieme al suo possibile contributo alla comprensione ecologica del pianeta e che la mettono allo steso livello della scienza tradizionale (Escobar 1998, 2009). Esempi di questi tipi di co-produzione sono i cosiddetti processi di consenso collettivo, o consenso di gruppo, i quali rafforzano processi di consultazione tra ricercatori e i gruppi indigeni (Hudson 2009, 125). In questi tipi di progetti, il consenso di gruppo permette non solo una partecipazione più ampia e giusta ma anche un ruolo attivo nella discussione e nella co-produzione di conoscenza da parte degli esperti indigeni. Inoltre, questi processi di co-produzione del sapere permettono di stabilire una relazione più profonda tra la comunità indigena e il gruppo di ricerca, così come una negoziazione più equa dei parametri di inclusione di diversi saperi che siano culturalmente etici e giusti anche per le comunità indigene.

Come ho già argomentato precedentemente in un articolo in lingua inglese (Casi 2019) e assieme ad altre ricercatrici (Casi, Guttorm and Virtnanen 2021) la conoscenza ecologica tradizionale contribuisce a dare una visione più completa e sostenibile dell’ambiente naturale osservato e della connessione reciproca tra esseri umani e territorio. Ho anche definito la saggezza pratica dei Sámi, derivata dalla loro conoscenza ecologica tradizionale, come un esempio di “sustainability virtue” ovvero di virtù della sostenibilità a cui tendere (Casi 2019, 210)  poiché rispetta i cicli naturali, i bisogni umani così come quelli degli animali e degli altri elementi della natura. È un esempio di virtù sostenibile nel senso che è trasmessa di generazione in generazione, assicurando i bisogni delle generazioni Sámi del presente, senza interferire nello sviluppo delle generazioni Sámi e non- Sámi del futuro (Casi 2019, 210).

Con le informazioni aggiuntive ottenute attraverso l’osservazione diretta del popolo Sámi del territorio artico e dei mutamenti ad esso connessi, è possibile avere una visione più completa dei cambiamenti dell’ambiente artico in un lungo arco temporale.

  1. Riflessioni conclusive

Specialmente durante questo periodo di pandemia (Covid-19), i giornali italiani raramente hanno dato spazio ai popoli e alle culture indigene. Eppure, ci sono importanti lezioni che tutti possiamo imparare dai popoli indigeni, come la relazione di profondo rispetto e interdipendenza tra gli esseri umani e la natura.

In questo articolo ho presentato il modo di vivere delle popolazioni indigene dei Sàmi, focalizzando l’attenzione sulla loro conoscenza ecologica e i mezzi di sostentamento tradizionali. Attraverso questa breve panoramica ho cercato di mostrare che il loro atteggiamento di fondamentale rispetto verso la natura, e verso tutti i suoi elementi viventi e inanimati, può rappresentare un modello ed assieme una visione etica e sostenibile che presenta un rapporto più equo e rispettoso tra gli esseri umani e l’ambiente naturale. Può quindi rappresentare un modello a cui tendere anche se a volte difficile da mettere in pratica non solo per i Paesi nordici, che vedono la presenza attiva di questi popoli, ma forse per i Paesi di tutta Europa, inclusa l’Italia.

La conoscenza ecologica tradizionale offre dunque un approccio olistico in un lungo arco temporale di uno specifico ambiente naturale, nel caso analizzato da questo articolo la conoscenza ecologica tradizionale dei Sámi offre una visione multidimensionale dell’ambiente artico e dei complessi ecosistemi che lo compongano. Questa conoscenza fornisce dati e osservazioni che la scienza occidentale convenzionale non ha, proprio per la diversità epistemologica di acquisizione del sapere. Esattamente per questo motivo la conoscenza ecologica tradizionale è un tipo di sapere che dovrebbe essere incluso nei processi e nelle politiche ambientali decisionali.

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[1] Vi è un dibattito aperto sulla veridicità di questa affermazione ovvero se effetivamente i Sámi siano considerati l’unico popolo indigeno nell’Unione Europea, poichè vi sono sono altre popolazioni indigene stanziate nel Nord della Federazione Russa, oltre ai Sámi, ma non vi sono fonti sicure riguardanti il luogo in cui queste popolazioni sono esattamente situate, se nella parte Europea o Asiatica della Federazione Russa. Gli Inuit sono un altro popolo indigeno situato in Groenlandia. La Groenlandia è geograficamente situata nel continete Americano ma forma parte del (Regno di) Danimarca e ne è stata una ex colonia ma ha uno statuto particolare di autogoverno dal 1979, il quale è stato riformato nel 2009 con l’Act on Greenland Self-Government (Act no. 473 of 12 June 2009). Per una sintesi, consultare il sito http://www.ilo.org/dyn/natlex/natlex4.detail?p_isn=110442 .

[2] Bisogna fare attenzione a non fare confusione poichè in Finlandia esiste una regione amministrativa – come in Italia troviamo la Toscana, la Puglia, l’Emilia-Romagna, ecc. – al nord del Paese chiamata anch’essa Lapponia, che in questo caso comprende solo la regione geograficamente situata al nord della Finlandia, entro i confini nazionali finlandesi. Diversa è la Lapponia intesa come Sápmi o territorio traditionale dei Sámi che attraversa il nord della Fennoscandia e parte della Federazione Russa.

[3] Altri articoli e rapporti riguardanti la grande varietà della biodiversità che si trova nei territori curati e abitati dai popoli indigeni possono essere trovati nel sito Rights and Resources Initiative https://rightsandresources.org/climateandconservation/

[4] Durante la mia permanenza in Finlandia come ricercatrice, negli ultimi dieci anni ho incontrato nelle situazioni più disparate diversi discendenti Sámi, i quali mi hanno confidato di essere tali solamente dopo aver capito il mio profondo interesse verso questi popoli. Ciò è indicativo delle difficoltà e della “libertà” –o meglio dire della non-libertà- di riconoscersi apertamente come appartenenti al popolo indigeno dei Sámi, difficoltà dovute proprio alle numerose discriminazioni e violenze subite.