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“I confini del mio linguaggio significano i confini del mio mondo”. Riflessioni filosofiche sul tema del confine

Invitato a offrire alcune riflessioni di carattere filosofico sul tema del confine, o dei confini al plurale—per il quale invito ringrazio nuovamente gli organizzatori dell’evento odierno—le prime idee ed impressioni che incominciarono a girarmi per la testa erano tanto personali quanto prosaiche.[1] Spero quindi che non Vi dispiaccia troppo se do l’avvio al mio intervento condividendole con Voi senza alcun pudore. Anzi, mi auguro sinceramente che siano di Vostro gradimento. Mi saprete dire, alla fine del mio racconto iniziale, se così sarà stato o meno.

Le idee ed impressioni in questione non sono altro che delle lontanissime e, oramai, quasi mitologiche memorie d’infanzia. Anche i professori di filosofia, benché baffuti, barbuti e ancor più spesso barbosi, sono stati bambini. Era il secolo scorso. Nato a Genova e cresciuto in Liguria, ero solito trascorrere le vacanze estive ad Andora, nella Riviera di Ponente; il Comune più occidentale della provincia di Savona, per intenderci. Più volte, un mio carissimo zio portava me, mio fratello e i nostri due cugini rivieraschi a visitare Nizza e Montecarlo, dove c’era un bell’acquario, nonché museo del mare, ben prima che ne venisse costruito uno ancora più voluminoso e, mi permetto di dire, famoso, in quel di Genova nel 1992, in occasione del cinquecentenario della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo. (Notate bene che, quale cittadino islandese, sono ora tenuto a riferire in questa sede che gli islandesi ritengono d’aver scoperto loro l’America. Al contempo, le popolazioni indigene dell’America del Nord sono ancora di un’altra opinione. Lascio a Voi dirimere la faccenda.)

Ma torniamo a me bambino. Ricordo tuttora l’emozione che mi prendeva quando arrivavamo a Ventimiglia—nota ai più oramai e, devo aggiungere, ahimè, per ben più tristi vicende legate ai difficili flussi migratori che avvengono all’interno dell’Unione Europea. Eccola là: la frontiera. Il confine italo-francese. Per me bambino, era un po’ come il Far West di Tex Willer o Sergio Leone. Le occhiatacce da parte degli ufficiali, armati e in uniforme, e i documenti d’identità da esibire, se e quando richiesti, erano di rigore. Il Trattato di Maastricht non esisteva ancora. L’essere cittadini europei, formalmente liberi di passare da uno Stato all’altro senza controlli di nessun genere, era ancora un pio ideale, un po’ come doveva esserlo all’epoca della Giovine Europa di Giuseppe Mazzini, anch’egli genovese come me, ovverosia negli anni ‘30 del XIX secolo. Ogni volta che si raggiungeva la frontiera, chissà perché, temevo che non ci facessero passare.

La memoria più strana era che ci si fermava prima ad un casello per fare i controlli del caso con gli agenti italiani. Non ricordo se fosse sempre e solo la Guardia di Finanza a farli o la Polizia di Stato. Se non addirittura i Carabinieri. Poco dopo, sempre che la memoria non mi inganni, si ripeteva la stessa cosa con quelli della gendarmerie francese. Dove si trovava il confine, esattamente, mi chiedevo: presso gli agenti italiani, presso quelli francesi, a metà strada, o in qualche altro punto tra i due estremi?

In chiave minore, la stessa domanda mi sorgeva in mente da bambino quando osservavo i cartelli situati lungo un’altra autostrada che annunciavano la fine della Liguria e l’inizio del Piemonte. Sì, lo so bene, di solito il percorso ce lo si immagina al contrario, a causa dei tanti turisti che vanno a trascorrere le vacanze al mare, accolti dall’amorevole e calorosa ospitalità tipica della gente della mia regione d’origine. Nel mio caso, tuttavia, si faceva il percorso opposto, soprattutto per andare a fare la settimana bianca sulle Alpi insieme ad altre famiglie di amici genovesi. Roba degna di Paolo Villaggio e Gigi Reder, in tutta onestà.

Crescendo, ho poi scoperto che questo genere di domanda, apparentemente stravagante se non addirittura stupida, aveva stuzzicato l’interesse di svariati studiosi. In particolare, il tema del confine o del limite estremo di un’entità sembrava avere attirato l’attenzione degli esperti in alcuni campi di ricerca dai nomi bizzarri, se non esoterici e, come i severi doganieri, anche un po’ minacciosi—senza volerlo fare apposta—ovverosia:

  1. la topologia,
  2. la mereologia e
  3. l’ontologia.

La prima disciplina non è lo studio dei ratti, anch’essi creature di degno pedigree fantozziano, ma quella branca della matematica che, grossomodo, si occupa delle figure geometriche le cui proprietà e relazioni precipue non dipendono dalla nozione di misura, ma bensì da operazioni di deformazione nello spazio logico-matematico. La seconda, invece, è la branca della logica formale che studia le relazioni e le proprietà relative al tutto e alle sue parti, o a un intero e le sue parti, e viceversa. La terza, la quale dal punto di vista lessicale è forse leggermente più nota rispetto alle altre due, è la branca della filosofia che studia l’essere o l’esistere degli enti nelle sue molteplici varietà.

Indipendentemente dai nomi un po’ curiosi di queste tre discipline, tutti e tre coniati o affermatisi in secoli relativamente recenti, la questione che mi ponevo da bambino, ovvero di dove si trovasse precisamente il confine o il limite tra due entità adiacenti, ha radici ben più antiche. Questo, almeno, per quel che riguarda la filosofia occidentale, la quale si è sempre divertita a osservare le realtà più ovvie e apparentemente banali dalle prospettive più insolite e sorprendenti, un po’ come fatto anche dalla poesia, dal teatro o dall’umorismo. Il grande Luigi Pirandello, in maniera quasi sintomatica, mescolava assieme tutte e quattro queste modalità della creatività umana con maestria straordinaria.

È probabile che molti tra di voi abbiano incontrato una sorta di parente stretto di queste antiche radici filosofiche ai tempi del liceo, studiando i paradossi della cosiddetta Scuola Eleatica e di uno dei suoi membri più importanti, Zenone. In particolare, mi riferisco al paradosso di Achille e la tartaruga, che vi illustro così come fu reso dal grande scrittore e saggista argentino Jorge Luis Borges (vd. ivi):

Achille, simbolo di rapidità, deve raggiungere la tartaruga, simbolo di lentezza. Achille corre dieci volte più svelto della tartaruga e le concede dieci metri di vantaggio. Achille corre quei dieci metri e la tartaruga percorre un metro; Achille percorre quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro, la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga percorre un millimetro; Achille percorre quel millimetro, la tartaruga percorre un decimo di millimetro, e così via all’infinito; di modo che Achille può correre per sempre senza raggiungerla.

Nel caso dei confini geografici, i due punti di riferimento non sono in movimento relativo. Achille e la tartaruga—la seconda dei quali con grande calma e ammirevole aplomb—si spostano invece nello spazio l’uno rispetto all’altra. Il caso di Ventimiglia, pertanto, è solamente analogo al loro, e di certo non identico. Tuttavia, ed è ciò che importa per noi al momento, il problema della divisibilità infinita tra due punti di riferimento nello spazio sussiste in entrambi i casi. In altre parole, se possiamo dividere all’infinito lo spazio che separa la guardia di finanza dell’imperiese—o polizia che fosse—dalla gendarmerie del nizzardo, quando e come, esattamente, possiamo dire di essere passati da un punto all’altro, ossia dall’Italia alla Francia, dalla Riviera di Ponente alla Costa Azzurra? O, ufficiali in divisa e mare a parte, dalla Liguria al Piemonte?

Non è necessario avere una striscia o un lembo di terra perché si ponga questa tipologia di problemi logico-matematici e filosofici. Leonardo da Vinci, per esempio, si chiedeva nei suoi Quaderni che cosa fosse ciò che separa l’aria dall’acqua: aria o acqua?[2] Suárez nelle sue Disputazioni di metafisica del 1597 si domandava di che colore fosse la linea di demarcazione che si trova tra una macchia nera e il suo sfondo bianco: nero o bianco?[3]

Lo stesso problema si può presentare anche in chiave temporale. Nel dialogo intitolato al fondatore della Scuola Eleatica, Parmenide, Platone si interrogava sul quesito seguente. Quando un oggetto inizia a muoversi, o un oggetto in movimento si ferma, è esso in movimento o è fermo?[4] Più tardi, Aristotele si trovò a riflettere su se e come il presente, che è il confine sia del passato sia del futuro, debba essere per necessità uno e il medesimo con essi, perché se i due confini estremi fossero delle entità costitutivamente diverse, allora l’una non potrebbe succedere all’altra.[5] E tutto questo per non tornare ai paradossi logici cari a Zenone, il quale si divertiva a dividere all’infinito anche il tempo, così da dimostrare che il moto non esiste.

Nella storia della filosofia e della scienza si sono andate accumulando le risposte più varie a questo tipo di quesiti.

  1. C’è chi ha sostenuto che il confine tra due entità distinte non appartenga a nessuna delle due. Leonardo da Vinci, per esempio, sembrava favorire questa soluzione. L’Italia e la Francia, da questo punto di vista, non coprirebbero tutto il territorio europeo di loro competenza, perché il loro confine sfuggirebbe, per così dire, a entrambi gli Stati. Sarebbe un po’ come quei confini tra orti o pascoli che appartengono a due contadini diversi. Visto che nessuno dei due ci mette mano, si riempiono di erbacce e di piante selvatiche.
  2. C’è chi ha suggerito che il confine appartenga invece a una entità piuttosto che all’altra, sebbene a volte, o addirittura tutte le volte, noi non siamo in grado di determinare con esattezza a quale delle due. Di chi è il confine tra l’Italia e la Francia, allora? Boh? E chi lo decide? E su quali basi? È un mistero. Ho qualche sospetto, però, riguardo a quale soluzione piacerebbe di più al presidente francese Macron. O a Giorgia Meloni, se per quello.
  3. C’è chi ha concluso che il confine appartenga a entrambe le entità. L’Italia e la Francia, quindi, condividerebbero il confine. Sovrapposizione reciproca. Comunione e unione. Pace e amore. Il che può piacere dal punto di vista giuridico e morale, o persino da quello politico e religioso; ma è probabilmente meno convincente sotto quello cromatico, almeno per quel che riguarda il paradosso in discussione nella versione offerta da Suárez alla fine del ‘500. Il confine tra il punto nero e lo sfondo bianco dovrebbe essere infatti sia bianco che nero, violando così il principio logico di non contraddizione.
  4. C’è infine chi ha pensato che ci siano in effetti due confini, o due estremi, ossia uno per ciascuna entità, i quali, tuttavia, coincidono perfettamente. Ancora una volta, pertanto, comunione e unione, pace e amore, ma in tal caso quale perfetta ed equipollente collocazione spaziale. Contatto senza sovrapposizione. Possibile? Forse in matematica. Suárez, benedetto metafisico, ci causerebbe un altro grattacapo. Una linea bianca che coincide con una nera, infatti, dovrebbe produrre qualcosa di grigio. La psicologia è concorde. Le illusioni ottiche studiate dai membri della cosiddetta scuola della Gestalt nel secolo scorso hanno approfittato a piene mani di queste aree grigie che noi percepiamo per il solo fatto che due oggetti neri in campo bianco siano molto vicini, così come tutti i buontemponi che ripropongono le loro illusioni ottiche su Instagram o altri social media.

Non chiedetemi di risolvere tutte queste stramberie. Se non ci sono riusciti fior di logici e matematici negli ultimi duemila anni, non c’è speranza che ci riesca io in venti minuti. Piuttosto, mi limito semplicemente a far notare che, benché queste quattro linee di pensiero si escludano l’un l’altra, non è affatto detto che ciascuna di esse possa o debba risolvere da sola tutti i casi possibili o concepibili. Difatti, anche se tutti i casi citati sono classificabili come “confini”, non tutti i confini devono per forza essere identici sotto tutti o la maggior parte dei punti di vista. (Il perché e il come qualcosa possa essere al contempo una cosa e molte cose è un altro classico dilemma della metafisica antica e moderna. Meglio lasciarlo perdere, per il momento.)

Così, tanto per capirci, possiamo distinguere tra:

  1. confini artificiali (ad es. quello tra l’Italia e la Francia) e confini naturali (ad es. quello tra l’aria del cielo e l’acqua del mare sottostante);
  2. confini ben definiti (ad es. lo spazio logico-matematico compreso all’interno di una circonferenza e quello esterno ad essa) e confini vaghi (ad es. quello tra l’aria e l’acqua, se e quando studiati a un livello di analisi subatomico); nonché
  3. confini incorporei (ad es. quelli comunemente postulati in geometria) e confini corporei (ad es. quelli dei solidi opachi studiati dagli psicologi della percezione).

Ma le stramberie non finiscono qui. Come detto, d’altra parte, la filosofia non è poi così remota rispetto all’umorismo. Sentite: C’è persino chi sostiene che i confini non esistano in sé e per sé. La cosa può sembrare folle, oltre che ridicola. Lo so. Di che diavolo abbiamo parlato sino a questo punto? E che cosa ci facevano i finanzieri a Ventimiglia? Prendevano il sole?

Per quanto questa idea appaia stralunata, o probabilmente lo sia, la si può concepire per davvero, anche se in maniera astratta, se non astrusa. E mi riferisco alla non-esistenza dei confini. Non ai doganieri che si abbronzano. Pensiamo, per analogia, ai buchi. Esistono i buchi? Pescatori, muratori e formaggiai potrebbero rispondere immediatamente di sì. I buchi sono importanti nei loro ambiti di lavoro. Qualche fisico o esperto di ontologia, però, potrebbe suggerire che esistono in effetti solo solidi o cose bucate, non buchi. O ancora: Esistono i colori? Pittori, stilisti e razzisti direbbero probabilmente di sì. Nuovamente, un fisico o un filosofo potrebbero sostenere che esistono in realtà solo solidi o cose colorate. I confini, di conseguenza, si ridurrebbero ad entità confinate, se non confinanti—come la Francia e l’Italia, appunto.

Tutti questi arzigogoli teorici e lessicali nascondono un aspetto concreto di non poco conto. I confini potrebbero essere un’invenzione della mente umana, almeno in una qualche misura significativa, piuttosto che una realtà oggettiva, ovvero del tutto indipendente da noi.[6] Nel caso di Ventimiglia, il confine italo-francese non sarebbe altro che una delle tante creature del diritto e della politica. Sparissero gli esseri umani, sparirebbero il diritto e la politica, e quindi sparirebbe anche il confine che tanto colpiva la mia immaginazione da bambino.

Non che questa sia una qualche critica. Se parliamo, pensiamo e viviamo le nostre vite in termini di “confini”, se cioè noi umani li abbiamo creati o accresciuti attraverso le nostre culture, i nostri apparati cognitivi, o la nostra immaginazione, allora detti confini avranno probabilmente avuto una qualche funzione da svolgere. Forse ce l’hanno ancora. Diritto e politica, d’altra parte, possono essere strumenti utilissimi, tanto quanto la fisica o la matematica.

Tuttavia, concedendo anche solo in chiave ipotetica che i confini possano davvero essere delle semplici creazioni umane, piuttosto che delle condizioni oggettive, nude e crude, del reale o, peggio ancora, delle divinità eterne e spietate, allora si può iniziare a non coglierli più quali aspetti rigidi del nostro universo, ovvi e immutabili, o perfino sacri e assoluti; ma, piuttosto e come detto, quali strumenti. Come le reti dei pescatori, i coltellacci dei formaggiai o i martelli pneumatici dei muratori, i confini sarebbero degli attrezzi che noi usiamo per determinati scopi e che, pertanto, ammettono usi positivi e usi negativi, potenziali o attuali che siano. Ed è qui la sola perla di saggezza che mi sento di poter fornire questa sera, se posso ardire a tanto.

Troppo spesso si discute di confini e confini no, di difendere i confini o abolire i confini, di erigere muri o abbatterli, accogliere o respingere. Piuttosto, io penserei a come distinguere tra confini buoni e confini cattivi. Così come si può distinguere tra muri buoni e muri cattivi. I muri possono infatti separare due gruppi di esseri umani, condannandone uno alla miseria perpetua e l’altro alla paura perpetua, ed entrambi all’odio. I muri, però, possono servire ugualmente a sorreggere un ampio tetto che, per esempio, protegge sia l’uno che l’altro gruppo. E, data la quantità di pioggia e di neve che ci dobbiamo sorbire qui in Islanda, credetemi: Un buon tetto è di fondamentale importanza.

Ma che cosa esattamente deve dirsi “buono” o “cattivo”? Non bisogna andare in Parlamento per sentire le opinioni più disparate sul tema. Fate un giro sui profili Facebook dei vostri amici, andate al bar all’angolo e porgete orecchio alle conversazioni che vi si tengono, od organizzate una cena con i vostri parenti—soprattutto quelli che sopportate di meno. La faccenda è chiara. Qualcuno dovrà scegliere tra le tante opzioni e decidere per il bene di tutti. E qui si rischia di nuovo il patatrac. Chi mai può decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo: il Papa, il Presidente della Repubblica, il Sindaco, mia suocera, il capo dei Carabinieri, un qualche megadirettore galattico?

La questione è spinosa. È un’altra magagna che il pensiero occidentale discute senza requie dai tempi di Socrate. Chi ha studiato diritto può sicuramente richiamare alla mente i dibattiti tra giusnaturalisti e positivisti. Continuano ancora oggi. Gli antropologi possono pensare al tema del relativismo culturale. Sempre vivo. Gli economisti a quelli dell’ordinalismo e dell’ofelimità. Sempre intuibili. Nuovamente, non posso offrire una soluzione semplice e definitiva.

Tuttavia, dati i miei studi in un campo della filosofia che porta un altro nome fantasmagorico, l’assiologia—ovverosia la teoria dei valori—mi permetto di condividere un modestissimo esercizio mentale che, a mio avviso, può essere d’aiuto quando si vuole distinguere il bene dal male. Di fronte a uno strumento umano, tangibile o intangibile, e ai suoi possibili utilizzi, individuali o collettivi, chiedetevi: quale uso massimizzerà il benessere fisico, quello psichico e la capacità di pensiero di tutte le persone coinvolte, presenti e future? Di fronte a un muro, una barriera, un confine, chiedetevi: come lo si può utilizzare in maniera tale che la salute, la serenità e il livello d’istruzione delle persone da entrambe le sue parti ne traggano il massimo beneficio?

Siamo forse di fronte a un’altra curiosa finzione filosofica? O a un’astratta utopia? No, non credo. È l’approccio indicato nel XXI secolo dall’UNESCO nella sua Enciclopedia dei sistemi di supporto vitale,[7] nonché dalle convenzioni dell’ONU del XX secolo sui diritti civili, politici, sociali, economici e culturali.[8] Non abbiamo tempo per discuterne in dettaglio, ma vale sempre la pena ricordare come i rappresentanti dei popoli della Terra abbiano già firmato e ratificato accordi internazionali che contengono indicazioni copiose, sofisticate e articolate su ciò che si può dire “buono” o “cattivo”, nonostante il fiorire di molteplici relativismi in tante altre aree della vita umana. Non so se questo appunto finale conti come un’altra perla di saggezza, ma mi pareva quanto meno saggio concludere con un concetto carico di speranza. Grazie mille.[9]

 

Note

[1] Il titolo cita Ludwig Wittgenstein, Trattato logico-filosofico (proposizione 5.6; vd. ivi).

[2] Vd. The Notebooks; selected Eng. trans. by E. MacCurdy, London: Reynal & Hitchock, 1938: 75–76.

[3] Vd. Disputationes metaphysicae; in Francisci Suarez Opera Omnia, voll. 25–26, Paris: Vivès, 1861, 40, V, §58.

[4] 156c–e.

[5] Fisica, VI, 234a5–6.

[6] Euclide, nel libro primo degli Elementi, definiva “termine” come “ciò che è estremo di qualcosa”, e “figura” come “ciò che è compreso da uno o più termini” (definizioni 13 e 14; vd. ivi).

[7] Vd. “Philosophy and World Problems” in EOLSS (dal 2002).

[8] Vd., ad es., Baruchello & Johnstone,  “Rights and Value”, Studies in Social Justice 5:1 (2011), ivi.

[9] La fonte principale per questo mio intervento è la seguente: Varzi, Achille, “Boundary”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2023 Edition), Edward N. Zalta & Uri Nodelman (eds.), ivi. Il prof. Varzi, da anni docente negli Stati Uniti, visitò la mia alma mater genuate ai tempi dei miei primi studi di filosofia, ove svolse una relazione sull’ontologia dei buchi organizzata dal compianto professore di psicologia cognitiva e informatica, Giuseppe Spinelli. È quindi una grande-piccola gioia poter rievocare quei tempi e quegli spunti, nonché i nomi di entrambi gli accademici testé citati, a così tanti anni di distanza.

The Ambiguity and Danger of the Concept of Border

Some scholarly friends have recently invited me to discuss the theme of the border. The first thing that came to mind was the ambiguity and danger of the concept of border.

Already starting from the definition given by the Italian encyclopaedia Treccani, we realise the duplicity of the concept of border:

The border is the line that separates one state from another. The concept, however, has a different origin and above all has a much wider use: we also need “boundaries” to organise our thoughts. The concept of the border is one of the tools we use to master reality (…) the word end comes from the Latin finis and, as in Italian, it indicates the conclusion of something (in Latin it was used precisely to indicate the border); “Con-finis” means that that conclusion is common, it is the same for both territories or lands. Each of the two territories ends, has an ending point, is limited, and ends up on the same border.

A first observation arises spontaneously for me: the border delimits the self and preserves one’s identity but at the same time it prevents reunification and exchange.

The cognate and synonymous concept of boundaries is, moreover, a common heritage of various branches of knowledge. We have deep traces of it in the myths of the Greek world, but we find the concept of border in the history of philosophy, in the biological sciences, in psychology, but above all, the concept has been widely explored – in the field of study closest to me – in law, both classical and modern, and finally in international law.

The border in the Greek and the Latin worlds separated order from chaos, the known from the unknown, the right from the wrong. You can always go beyond the border, however, as long as you have a good guide with you, a new Virgil.

For Heraclitus, the soul has such remote boundaries that it is not possible to reach them.

Horos in Greek is the border that separates two lands but also the stone that concretely signals their limit. Horos defines both a concept, an experience but also the norm that separates and defines. Horos also has a normative power; it represents a necessity guaranteeing an order. To raise a boundary means to recognise a difference, an otherness, to regulate the relationship with it.

In Hesiod’s Theogony, the boundary is the original delimitation between heaven and earth starting from primordial chaos. The limit is an ordering element through which to get out of chaos. The limit is a barrier to man’s fear of the infinite.

Heracles, during his journey in search of Geryon’s herds, defeats monsters and monstrous creatures, sets a physical boundary between the known world and the world where human beings must not go, placing the border with two columns placed on the two shores of the Strait of Gibraltar. And this limit, if you think about it, resisted until Christopher Columbus’ voyage to the Indies. For Christians for centuries, on the other hand, the edge of the world was Santiago de Compostela on the Portuguese shores of the Atlantic Ocean where the remains of St. James the Great arrived.

But the boundary seems to exist to be crossed, as Dante’s Ulysses teaches, even at the risk of death (see verse 119 of Canto XXVI of the Inferno, known as the “Canto of Ulysses”, which reads: “You were not made to live like brutes, but to follow virtue and knowledge”).

It should be noted, however, that Hermes (not surprisingly the protector of travellers, merchants, and thieves), the deity who protects borders but at the same time encourages them to be overcome.

The boundary marks a dividing line that establishes a relationship of inclusion/exclusion. At the border, you can make two choices: either stand at the threshold or cross it.

The border is always defined but at the same time open. It has in itself the idea of limit and difference, of otherness and passage as a link between the inside and the outside, between the known and the unknown. It is not a locked door but a passage to be crossed, possibly with good moral guidance.

 

The concept of boundaries in the natural sciences

In biology – although the statement should be taken with approximation as the writer is not an expert on the subject – the so-called primordial cell has been hypothesized, and subsequently reproduced in the laboratory, a cell with a circumscribed environment, separate but in communication with the outside world and with the potential to increase its complexity; Going beyond the boundary of the cell produces new life; reproduction occurs only by penetrating the other cell, mixing and splitting the DNA of the mother cell so that the daughter cell contains part of the DNA of the two fusing cells.

It is well known that the structure of the cell is formed by the cell membrane, the nucleus and the cytoplasm. For the cell to reproduce, it is necessary to penetrate the cell membrane, reach the nucleus and then allow the DNA to be mixed.

A French psychoanalyst, Didier Anzieu, in his work “The nomadic epidermis and the psychic skin”, borrowed the behaviour of cells, and elaborated the metaphor of the skin, an imaginary metamorphosis of the skin: the skin as a “psychic envelope” that ensures protection against excess stimuli, allows the development of the senses, and acts as a support and containment to the feeling of self.

 

The sphere of law

In Roman law, the “limes” in Roman law marks the boundary between Roman civilisation and the barbarians who cannot be integrated (barbarians are those who stammer, who do not speak Latin, the language of the fathers).

Throughout the Middle Ages, during the Empire and during the Papacy, the border did not represent something essential because all the space belonged to the Emperor thanks to the investiture of the Pope.

It was only with the Treaty of Westphalia in 1648, which put an end to the Thirty Years’ War and effectively created the modern absolute state, that the concept of the border returned and the modern border as it is understood today was born.

In Roman civil law, property, the “dominium ex iure Quiritium”,  was recognised only  to “cives”  and only on Italian soil; defined by the classics as absolute law that extended “usque ad coeleum et ad inferos”, it was protected by robust actions to defend the borders (“actio finium regundorum”). It was often granted as a war prize, but with the disintegration of the Roman Empire small property almost completely disappeared and already with the barbarian invasions, in the Middle Ages, everything had returned to the property of the occupying sovereign.

With the fall of feudalism, private property was reborn as a positive concept for the emerging bourgeoisie (according to the French Civil Code of 1804  “the right of property is that which belongs to every citizen to enjoy and dispose of his goods, his income, the fruit of his work and his industriousness”); already in the Napoleonic Code it is stated that property is recognised within the limits of laws and regulations; and also in the Italian Civil Code of 1942 property is recognised “within the limits and with the observance of the obligations established by the legal system”.

After all, feudalism dies when it is reborn and private property is recognised. The border divides what belongs to the Prince from what belongs to the bourgeoisie. Among private individuals, “u limmitu” (a word from the archaic Sicilian language), acts as a boundary, it is what separates my property from the property of others.

And yet, in modern civil law, the concept of property has always had limits, it must have boundaries and it must be crossable in the general interest. This is stated in art. 832 of the Italian Civil Code of 1942. According to art. 42 paragraph 2 of the Italian Constitution of 1947, the right to property is not a right without limits, it must be based on the principle of solidarity, and it is necessary to impose limits on private property for purposes of social solidarity (the so-called social function of property), these limitations must allow society to grow economically beyond the selfish needs of the individual owner.

 

The border as a place of separation within our society

Be careful, sometimes borders have crept into our own society: what else are prisons and asylums? They are confined places where the inside/outside exchange is difficult, complex, sometimes hindered and marginalised. The best sociology and the most modern psychiatry, however, indicate that the resocialisation of the prisoner passes through the exchange with “the outside”; just as mental distress is cushioned by social inclusion (see the illuminating pages of Franco Basaglia on this point).

Turning to modern international law, it is noted that the ambiguity, and above all the danger, of the concept of the border that delimits the nation is back. That of nation is an idea of romantic derivation: as a unity of language, religion and traditions, but it is an equally dangerous idea because it is at the basis of nationalism and its authoritarian drifts: think of the exaltation of the Aryan race by the Nazis, of the magnificent roots of the Roman Empire exalted by fascism and the examples could unfortunately continue. In the early 1900s, this concept of the nation was opposed, without any success, by the utopia of socialist internationalism, the borderless homeland of workers all over the world, an idea, in turn, sadly exploited by the Bolshevik revolution and Stalinism.

Borders are often drawn for political reasons, as often for economic reasons, and the economic question is often deliberately confused with the religious or historical-political one. Think of the border disputes over international waters for the exploitation of marine resources, or more recently, the war for the conquest of space. On the other hand, we cannot fail to point out how difficult international negotiations are for the protection of the seas and the atmosphere from pollution, where seas and atmosphere cannot but be considered as universal goods, without borders, functional to the very existence of the human race.

For the conquest of the border, wars are fought and deaths are caused, and this is why I am increasingly beginning to distance myself from the concept of border, as is now openly outlined in this article.

 

The open society

I can say without hesitation that the border must be crossable: the border that can be crossed is functional creating of an open, multicultural, multiethnic society.

And yet, despite having taken sides, I cannot ignore that this ambiguous and dual concept of border also has limited positive aspects: it allows the preservation of traditions, cultural heritage, the teachings of the fathers, it is a barrier to the vulgarity of the world and resistant to the so-called liquid society described by Zigmunt Bauman.

According to Zigmunt Bauman, in fact, we Westerners live in a “liquid society”: an environment without definitions, where everything mixes and merges with something other than itself, producing a single media soup. Liquids dilate, mix, have no boundaries.

 After all, respect for other people’s traditions and cultures is respect for the border.

Integration is therefore the solution that is perhaps not definitive and perhaps not a salvation: it represents the virtuous fusion between two cultures without one becoming hegemonic over the other: this is how the United States of America was born and became great, mixing Irish, Italians, Germans and Jews.

But the West is burdened by the sin and the unhealed wound of colonialism that is still at the root of the Third World’s serious backwardness and at the root of continuous and ever dormant disputes and claims. In fact, it is difficult to talk about integration in countries where poverty still reigns and where the economic and cultural disasters of colonialism are still visible.

Recall that for years the American colonialists denied the culture of the American Indians and the Spaniards did the same in South America. More recently, think of the extermination of the Armenians or the Kurds. The systematic eradication of indigenous cultures has sometimes been carried out by genocide. It is difficult for the West to allow us to forget such outrages.

A dominant culture must not only respect minorities but must also be able to tolerate aspects of “other” cultures that are often not easily understood.

There are many examples: think of the problem of the veil of Islamic women resolved in a heterogeneous way within the EU, often banned because it is seen as an intolerable harassment of Islamic women, while in the perspective of the Parisian “banlieues” it represents the affirmation of an identity. In Iran, on the other hand, the imposition of the veil remains an authoritarian act of rejection of Western culture, considered dangerous for religious customs, so a real civil war is being fought in which women are the absolute protagonists. In modern Turkey, until the advent of Erdogan, the state, which wanted to be secular, forbade women to wear the veil at public activities and in universities because there was a desire for modernisation and integration. Today in Turkey, the veil is back in fashion. It is equally difficult in our eyes to accept certain forms of “jus corrigenda” typical of certain patriarchal cultures. Think again of the controversy over the ban on the use of pork in state school cafeterias or the practice of circumcision.

Beyond easy and populist slogans (“immigrants must respect our rules and must adapt to our culture…”), we “dominants” must also have the ability to set limits that are often not always shared by the majority: just to give an example, think of the ban on displaying the crucifix in public offices. Of course, the crucifix identifies a large and millenary community such as the Christian one, but if we want to be truly “open” and affirm the secularity of the state and the equality of all religions before the state, then we need to take a small step back.

However, efforts must be made to understand and the best Western models must be promoted, without imposing them. There is, in fact, a non-negotiable core of Western values, encapsulated in the 1950 European Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms, which we must be proud defenders of. And here the border once again takes on a positive value of defending fundamental values that characterises us as a virtuous community that, after the disaster of the two world wars, recognises itself and is founded on those values inscribed in the Convention.

The only boundaries we must preserve are those of the freedom of others, of property, culture and the language of others.

In this sense, applying the principles of the Convention, and of other national and supranational fundamental charters, means attributing to positive law an educational function. The same thing happened in Italy when “reparative marriage” was abolished or the so-called abandonment of the marital roof was decriminalized.

 

The issue of immigration

The concept of border leads us to confront the great, pretended border that perhaps never existed represented by the Mediterranean Sea, which has always been a place of exchange of civilizations: from the Phoenicians, to the Greeks, to the Romans to the Arabs.

Today we want there to be an undrawn border beyond which many peoples fleeing war and famine must not cross. Syrians fleeing a bloody internal war that has already caused more than 430,000 deaths must not pass; Eritreans and Somalis who are weakened by years of wars, famines and dictatorships that in Eritrea impose an endless military conscription on men and women must not pass; sub-Saharans or Pakistanis whose living conditions are miserable must not pass through (just think that the annual per capita income in countries such as Pakistan stands at $1,505, in Ivory Coast at $2,549 or in neighboring Tunisia at $3,800, compared to $35,657 for the annual per capita income in Italy and $43,658 in France); The Bangladeshis in their country of 170,000,000 inhabitants live crammed into a space that is three times smaller than Italy, afflicted by floods, where there are 50,000,000 people living in poverty and where 40 % of the population lives on less than two dollars a day.

But before accusing ourselves of populism and giving ourselves the usual handy lesson, “let’s help them at home”, I want to recall some positive norms only formally signed by almost all the states of the world:

Article 13 of the Universal Declaration of Human Rights of 1948: “Everyone has the right to freedom of movement and residence within the borders of any State. Everyone has the right to leave any country, including his own, and to return to his own country.”

Art. 14 c. I Dec. Univ.: Everyone has the right to seek and to enjoy in other countries asylum from persecution “.

And what can be said of our Constitution, which not only recognises a broad right of asylum (art. 10 of the Constitution). “a foreigner who is prevented in his country from effectively exercising the democratic freedoms guaranteed by the Italian Constitution has the right to asylum in the territory of the Republic under the conditions established by law”) but recognises the right of our citizens to emigrate (Art. 35 c. III “… recognises the freedom of emigration, subject to the obligations laid down by law in the general interest…).

If, therefore, there is a positive right to emigrate, if you will allow me to provoke you, there are no borders, no frontiers, no barriers, no walls.  And as Pope Francis said on the 25th anniversary of the fall of the Berlin Wall: we need bridges, not walls!

And how odious it is the distinction that we Westerners strive to emphasise between those who can be recognized as “asylum seekers” and those who are only “migrants of necessity” who must be rejected.

Of course, this is not to deny the right of each individual state to regulate immigration, but as the Italian Constitutional Court pointed out in its judgment no. 105/2001: “… Although the public interests affecting immigration are manifold and however much they may be perceived as serious problems of security and public order linked to uncontrolled migratory flows, the universal character of personal freedom cannot be affected in the slightest, which, like the other rights that the Constitution proclaims inviolable, cannot be affected in the slightest. It is up to individuals not as participants in a particular political community, but as human beings.”

 

From the border to the ghetto

Allow me now to make one last comment on what I have now revealed to be my negative judgment on the border: how much horror is emanating from the Gaza Strip, which is nothing more than the violent imposition of a border that tightens like a noose around the neck of the Palestinian civilian population and has caused as many as 20,000 deaths to date, including at least 8,000 children.

This is not the place and the time to reflect on the causes of the war between Palestinians and Israelis, but it seems paradoxical to me how Israelis have forgotten the suffering inflicted on them by the Nazis in the Jewish ghettos of half of Europe: today the new ghetto is the Gaza Strip! The extremes connect.

Fortunately, it leaves me with a glimmer of hope, which comes, as always, from culture and dialogue, and I am referring to the so-called Israeli writers of dialogue: Abraham Yehoshua, Amos Oz (who already in 1967 said “even an inevitable occupation is an unjust occupation”); David Grossman, advocate of coexistence between Arabs and Israelis.

Two peoples in two states, it is hoped: at this moment, the impassable border is not the one defended by tanks and barbed wire, but the one erected by religious absolutism and economic selfishness. The certainties of the Jewish religion against the absolutism of Islam; the Western wealth of Israel and the poverty of the Palestinians; the arrogance of the Jewish settlers and the lack of water and arable land of the Palestinians… and we could go on…

But now it is time for me to stop after rambling on too much.