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Il sogno del “pane grosso”: il caso de li panètt di Monte Sant’Angelo, tra pellegrinaggio e transumanza

  1. Introduzione: il pane come “cibo assoluto”

Il pane costituisce, specialmente nella società preindustriale, a sfondo contadino e rurale, una delle basi fondamentali dell’alimentazione, quel “cibo assoluto” (Marrone, 2020) che sin dalla notte dei tempi è legato ai nostri bisogni primari ed essenziali, anche quelli di natura cultuale e spirituale. Questa condizione è pressoché atavica, trasversale alle epoche e ai luoghi, riscontrabile in quasi tutti i popoli della storia (secondo Pitagora “l’universo nasce con il pane”) (Matvejevic 2010, p. 17), ma assurge in ogni caso a conditio sine qua non nell’area mediterranea e vicino-orientale, dove ha luogo la celebre triade braudeliana: grano, olivo, vite (Braudel 2007, p. 45). Già nel mondo classico, del resto, la differenza tra chi si cibava di pane e i cosiddetti “lotofagi” – i mangiatori di bacche, erbe e foglie – determinava, almeno agli occhi dei primi, la linea di demarcazione tra stato di civiltà e barbarie (Matvejevic 2010, p. 14).

Preparato e consumato in migliaia di modi a seconda delle latitudini e dei tempi, il pane è un vero e proprio medium comunitario, tanto concreto e profano – il pane come metonimia del mangiare – quanto sacrale e simbolico – il pane come metafora di pienezza, sinolo di corpo e anima, terra e cielo. Se, d’altra parte, nella chiesa cattolica l’ostia richiama esplicitamente un disco, un’aureola, un piccolo “sole”, al centro dell’eucarestia ortodossa vi è la cosiddetta prosfora, una forma doppia di pane lievitato che rimanda alla natura umana e divina di Cristo. Nello stretto rapporto che intercorre tra pane e religione naturale si comprende come il cristianesimo abbia un solido impianto agrario, con riti e liturgie che si sovrappongono ai cicli cosmici e stagionali, i miti campestri, le tradizioni del mondo pagano (da paysan, contadino, villano) (treccani.it). Evidente è, pure, la sua somiglianza strutturale e narrativa con i misteri eleusini, cioè il culto di Demetra (Cerere presso i Romani), la cui figlia Persefone (Proserpina) ogni anno torna dagli Inferi – cioè dal sottosuolo – dove è rimasta “sepolta” per quattro mesi. Proprio come i semi del grano, la divinità ciclicamente rinasce, frugifera, salvifica, e l’attesa del suo ritorno, così come l’attesa per il nuovo raccolto, è messianica, promessa di pane e rinnovamento, spirituale e materiale (Jacob 2019, pp. 84-104; Matvejevic 2010, pp. 40-81). Si pensi al dantesco “pane degli angeli” di cui si parla nel Convivio e nel Paradiso, ossia quella conoscenza che è nutrimento dell’anima e origina direttamente da Dio (Bufano e Mellone), ma si rifletta anche sul ruolo ri-generativo e orientativo giocato dal pane nelle fiabe e nei racconti del folclore, che spesso viene spezzettato e sparso sul sentiero per ritrovare la via (vedi ciò che avviene in Pollicino o in Hänsel e Gretel).

La centralità del pane è una delle grandi costanti della storia umana. Ciò vale sia in una prospettiva diacronica, in relazione a cambiamenti prodottisi nel tempo, sia in senso sincronico, cioè come una funzione descrittiva capace di fotografare una società in un determinato momento storico, restituire una istantanea di ciò che essa è hic et nunc. La scoperta dell’agricoltura e delle colture più adatte a produrre sfarinati e, in seguito, il progressivo sviluppo delle tecniche di panificazione hanno influito non soltanto sul benessere materiale, ma anche sulla psicologia e l’ethos dei popoli, influenzandone la cultura, gli equilibri sociali, amministrativi e politici. È risaputo, ad esempio, che i primi panificatori della storia, gli Egizi, utilizzavano il grano come una forma di salario (Gobbetti e Rizzello 2023, p. 7), mentre i cittadini romani avevano la tessera frumentaria (ribattezzata durante la Seconda Guerra Mondiale, circa duemila anni dopo, “annonaria”) che permetteva loro di ritirare periodicamente una razione di grano e pane presso i pistores (Jacob 2019, p. 123). Sugli spalti degli anfiteatri, in occasione delle competizioni gladiatorie, veniva inoltre distribuito gratuitamente il cosiddetto pane gradilis (Matvejevic 2010, p. 64), che costituiva uno strumento indispensabile del welfare state imperiale (di qui la celebre espressione di Giovenale “panem et circenses”) (Giovenale 2011, p. 156).

Il pane è un indicatore affidabile delle caratteristiche di una comunità o di un gruppo sociale anche nelle differenze interne, culturali, economiche, di classe. Per esempio, la possibilità di nutrirsi di pane bianco, prodotto con farine raffinate, nobili, fino a un passato molto vicino era considerata un chiaro privilegio di censo, mentre il doversi sfamare con pane nero, fatto con farine miste e di bassa qualità, era un inequivocabile indice di povertà (Camporesi 2016, p. 11). Così accade ai braccianti protagonisti del romanzo di Silone Fontamara, che sognano il pane bianco dei padroni, dei latifondisti, ma si devono accontentare di mangiare pane bruno (Pantè 2017, p. 250). La stessa Nedda, protagonista dell’omonimo racconto di Verga, nelle pause di lavoro nei campi mangia una fetta di pane nero farcito con cipolle bianche (Verga 1992, p. 19), mentre Rosso Malpelo nel buio della miniera rosicchia del “pane bigio”. Da tempo, del resto, gli studiosi tendono a mettere in evidenza la distinzione tra il verde degli “erbaggi”, che nell’era preindustriale costituivano buona parte della dieta della plebe, specie nel Sud Italia, e il rosso della carne, che era appannaggio esclusivo dei signori (Sentieri 2019; Teti 1999, pp. 154-177). Nella storia dell’alimentazione i contrasti cromatici sono sempre stati rivelatori di differenze che, pure, oggi si sono attenuate o addirittura rovesciate, a causa della globalizzazione dei mercati, delle maggiori disponibilità economiche generali e, cosa non trascurabile, di una maggiore consapevolezza diffusa in materia di stili di vita sani e sostenibili. Nella società del capitalismo avanzato, questa diversità non esprime più, oramai, alternative nette o dicotomie rigide, ma suggerisce un’idea di complementarità, la possibilità di un’alimentazione varia e combinata (anche se non necessariamente sana e bilanciata), mentre in passato imponeva scelte obbligate, aut aut che marchiavano l’immaginario collettivo, restando nella memoria delle generazioni (“o mangi questa minestra, o salti dalla finestra”, era il monito che ricorreva in molte famiglie, soprattutto nel Sud Italia). La stessa dieta mediterranea, con la sua frugale varietà e il suo equilibrato apporto di calorie, non è, in questo senso, che un insieme di pratiche e abitudini evolutesi lentamente, faticosamente, in millenni di lotta per la sopravvivenza, la codificazione e l’“istituzionalizzazione” di un regime dietetico che quasi sempre era la reazione a stati di indigenza, carestie, crisi produttive. Fa parte del resto di una visione ingenua e mitizzante della storia credere che il Mediterraneo sia stato “un paradiso offerto gratuitamente al diletto dell’umanità. Qui – mette in chiaro Braudel – tutto ha dovuto essere costruito, spesso più faticosamente che altrove” (Braudel 2007, p. 36).

  1. I miti dell’abbondanza e il loro “rovescio”

Nell’epoca antica la differenza di accesso ai regimi alimentari più grassi e calorici è stata tale da generare, quasi per reazione, numerosi topoi compensativi, legati a favolose visioni di abbondanza, speculari utopie dell’opulenza, che nulla avevano a che fare con le abitudini alimentari fattuali e correnti, ma stavano a evocare un “mangiare festivo”, straordinario e iperbolico, che risarciva almeno idealmente i poveri della loro endemica inopia, della loro fame perenne. Nella mitologia nordica vi sono diversi richiami a questo desiderio di disponibilità illimitata di cibo: nell’Edda, testo cardine della leggenda norrena, si parla per esempio del Sæhrímnir, un enorme maiale che viene affettato di continuo ma che altrettanto prodigiosamente si rigenera, dando sempre nuova carne. A partire dal Medioevo nascono poi altri luoghi folclorici di grande fortuna, come il “paese di Cuccagna” (la cui etimologia si riferisce probabilmente al tedesco Kuchen, “torta”) (Varotti 2017, p. 18), il “paese di Bengodi” (di cui parla il Boccaccio nella novella di Calandrino, nell’ottava giornata del Decameron) (Boccaccio 1976, pp. 458-464) oppure il “paese dei balocchi”, narrato da Collodi in Pinocchio, dove l’aspettativa di mangiare a crepapelle si confonde con l’inconfessato anelito a uno stile di vita edonistico, dedito ai piaceri, che intende esorcizzare forse l’austerità morale del tempo.

Versione popolare del grande mito dell’età dell’oro, il paese di Cuccagna ha rappresentato per secoli l’utopia di un mondo più libero e più giusto, redento dalla condanna della fame e della distribuzione ineguale delle risorse, dello sfruttamento dei deboli. Mondo “rovesciato” rispetto alla realtà penosa della fatica e della penuria, Cuccagna affonda le radici nello spirito del Carnevale e nei suoi riti comici: dove il realismo grottesco, e la riduzione delle cose alla dimensione concreta del corpo e delle sue funzioni, è (come ci insegna Bachtin) una liberazione temporanea (e perciò tollerata) dalle gerarchie sociali ed economiche. (Varotti 2017, p. 18)

L’approdo terminale di questa lunga tradizione iconografica sembra essere l’immagine della “grande abbuffata” (titolo, pure, di un celebre film di Marco Ferreri del 1973), che allude all’odierna mutazione del concetto di alimentazione, indicando un giudizio escatologico, apocalittico, sulla società consumistica. Finita quella che Chilanti ha chiamato l’“età del pane” (Chilanti 1974), caratterizzata da bisogni e desideri essenziali, inizia l’era della cosiddetta “dietetica” (Baudrillard 1987; Teti 2015), in cui il rapporto umano con il cibo si fa più nevrotico e alienato, meno fisiologico e conviviale, divenendo talora sintomatico di una “malattia” che non è soltanto morale o culturale, ma anche psicofisica, clinica (si pensi ai tanti disagi e patologie a carattere alimentare che si registrano, a ogni livello demografico, nella società contemporanea). Questa tendenza alla “rimozione” alimentare, alla deriva bulimica, raggiunge un picco straniante nel film Il fantasma della libertà di Luis Buñuel, surreale satira della borghesia in cui l’atto del mangiare, e ancor più il farsi vedere mentre si mangia, è ritenuto sconveniente, scandaloso, e per questo da censurare: i personaggi del film mangiano infatti di nascosto, con vergognosa voluttà, mentre evacuano pubblicamente, con fierezza. Ne La fine del mondo De Martino segnala del resto come

il passaggio dalla fame alle nuove e diffuse disponibilità alimentari non dovesse essere considerato in maniera unidirezionale come miglioramento, ma fosse denso di nuovi rischi e di inedite minacce per le società moderne. L’etnologo ricorda che se la fame è una minaccia, anche mangiare da soli è una minaccia. Il pane come cibo che “nutre si può perdere anche quando si spegne la sua valorizzazione di cibo da mangiarsi in comune”. È necessario “mangiare insieme, ritrovare il pane del banchetto, e comunicare, attraverso il suo diretto significato umano che accenna a contadini e a fornai, con la comunità intera da trasformare e davanti a cui testimoniare”. (Teti 2015; De Martino 2019)

2.1. Il sogno del “pane grosso”

Guardando attraverso la lente deformante dei miti dell’abbondanza si comprende come l’attitudine del popolo a fantasticare sul cibo e a vagheggiare mangiate pantagrueliche non sia altro che la proiezione rovesciata di una condizione negativa e perturbante, dietro la quale si allunga l’ombra della fame, s’intravede il sacro timore del digiuno. Nell’inconscio popolare, nutrito da secoli di miseria e ristrettezze, il pane è per definizione lontano, fuggente e inafferrabile (Camporesi 2016, pp. 39-46; Belpoliti 2008), e gli sforzi per procurarselo sono molto faticosi, spesso velleitari, tantalici. Non stupisce, allora, che attorno al pane si sia generato nella storia della civiltà umana un alone di sacralità, un senso di prestigio assoluto, che trascende la valenza alimentare.

Il pane, oggetto polivalente da cui dipendono la vita, la morte, il sogno, diventa nelle società povere soggetto culturale, il punto e lo strumento culminante, reale e simbolico, della stessa esistenza, impasto polisemico denso di molteplici valenze nel quale la funzione nutritiva s’intreccia con quella terapeutica (nel pane si mescolavano le erbe, i semi, le farinate curative), la suggestione magico-rituale con quella ludico fantastica, stupefattiva e ipnagogica. (Camporesi 2016, pp. 11-12)

La letteratura, in ogni tempo, ha registrato puntualmente questa “fuga” del pane – questa oltranza di fame – facendone spesso, peraltro, un consolidato principio comico e umoristico. Nel Dialogo facetissimo et ridiculosissimo del Ruzante, recitato durante la carestia del 1528, il protagonista Menego si mette a contare, aiutandosi con le dita, i mesi che lo separano dal momento in cui sarà maturo il frumento e si potrà dunque fare il “pane novello”: “Zenaro, fevraro, marzo, avrile, mazo, e an mezo zugno al fromento. [Sospira] Poh, a’ no gh’a’ riveròn mé! Cancaro, mo l’è el longo ano, questo” (Ruzante 1565). La rincorsa affannosa del pane è sia temporale sia spaziale, geografica, poiché spinge masse di indigenti a spostarsi di luogo in luogo, sensibili al “miraggio della […] terra promissionis” (Camporesi 2016, p. 140). Nei secoli più bui del Medioevo fino a tutto il diciassettesimo secolo – ricorda Camporesi – i contadini dell’Emilia, non appena potevano, “fuggivano dalle loro campagne ed emigravano nelle terre al di là del Po ‘perché el dicono che el se ge fa pan grosso’” (Ibid.). Le migrazioni e i vagabondaggi per fame non erano, in ogni caso, una prerogativa esclusivamente padana, ma riguardavano tutte le aree povere e marginali, gran parte del “mondo subalterno”: il “pane ‘più grosso’ era un sogno drammaticamente urgente che […] spingeva la gente di campagna alla ricerca problematica, per non dire onirica, della pagnotta grande, bianca, buona” (Ivi, p. 153).

D’altra parte, la grandezza del pane non era dovuta in realtà soltanto a caratteristiche geografiche e morfologiche, quanto, anche, a precisi aspetti culturali e socioeconomici. L’uso di panificare in forme grandi e durature era, infatti, più diffuso nelle comunità le cui condizioni di vita erano precarie e incerte: le dimensioni del pane, da questo punto di vista, erano il segno tangibile, plastico, di un atteggiamento previdente e conservativo, che esprimeva la comprensibile preoccupazione di non mangiare abbastanza, di non avere risorse a sufficienza per affrontare la vita. Se, infatti, i ceti benestanti potevano permettersi pane fresco ogni giorno, quelli più poveri si limitavano a panificare solo una volta alla settimana o ogni due settimane, a causa dell’elevato costo delle materie prime, del lavoro, nonché della gravosa incidenza delle tasse (Comolli 2019).[1] Fare il “pane grosso” era dunque una scelta di buon senso, dettata da necessità primarie, pratiche ed economiche. Abbondante e durevole, questo genere di pane sembra in effetti strettamente legato alla dimensione del lavoro manuale e pesante, nonché ai valori “lenti” – non ancora slow – della fatica, del sacrificio, della pazienza, del risparmio, della conservazione. Non è un caso che molte tipologie italiane di “pane grosso” provengano da contesti territoriali di tradizione agreste e pastorizia, o siano connesse ai piccoli e grandi itinerari commerciali e religiosi, nei quali questa “lentezza” era una condizione di fatto, più spesso un problema o un limite, non già una libertà o una conquista (Braudel 1986, p. 226; Teti 2015). In queste condizioni hanno avuto origine, per fare alcuni esempi, il pane grosso di Tortona, il cui nome rimanda in realtà anche alla moneta battuta dalla cittadina piemontese, il “grosso” appunto (terrederthona.it), i pani grossi di “bollino” o di “crocetta”, tipici dell’area piacentina (Comolli 2019); il Pane di Altopascio, che nel tredicesimo secolo era distribuito dai Cavalieri del Tau ai viandanti che passavano dal borgo toscano percorrendo la Via Francigena (Morciano 2015); il Pane di Genzano nel Lazio (Gobbetti e Rizzello 2023, pp. 343-344) e il Pane Solina in Abruzzo, il Pane di Matera in Basilicata e il Pane di Altamura e Laterza in Puglia, tutti di antico retaggio pastorale (come dimostra, in particolare, la presenza della pecora nello stemma della città laertina) (fornerielaertine.it). Si tratta, in tutti questi casi, di pani dalle dimensioni generose, oggi diremmo familiari o comunitarie, che inducono alla suddivisione e alla condivisione: ne sia prova il fatto che, fino alla metà del secolo scorso, tra le abitazioni dei sassi di Matera vi erano dei passaggi attraverso cui le famiglie legate da parentele e comparaggi si scambiavano alimenti e vari oggetti di uso quotidiano, tra cui appunto il pane. La rinomata pagnotta locale dalla caratteristica forma “a cornetto” è nata probabilmente in queste particolari condizioni abitative e antropologiche – oggi peraltro modificate da processi di gentrificazione di fatto irreversibili (Bilò e Vadini 2016, p. 169).

2.2. Un cibo-talismano per sfamare una volta per tutte l’umanità

Il “miraggio” del pane è stato, ancora nei secoli a noi più vicini, ben più che una voluttà o una ingenua aspirazione: al contrario, si è rivelato un grande catalizzatore sociale e politico, capace di mobilitare l’ingegno dell’uomo, il suo talento, i suoi desideri, talvolta i suoi furori. Si pensi al manzoniano “assalto ai forni”, ma anche, in generale, a tutti i rivolgimenti e i conflitti generati dall’atavica richiesta di pane, che è stata letteralmente in grado di plasmare le civiltà, caratterizzandone non soltanto i destini materiali ma anche le tensioni morali, le aspettative “metafisiche”, per così dire. Il “sottotesto” delle Argonautiche, ad esempio, non scoraggia affatto chi volesse identificare nella mitica ricerca del vello d’oro di Giasone e compagni una spedizione coloniale verso le terre ricche di frumento oltre il Mar Nero (Jacob 2019, p. 73). In maniera analoga, non pochi studiosi moderni ritengono le vicende narrate nell’Iliade una trasfigurazione epica della lotta per l’egemonia nell’area dell’antico Ponto Eusino, un obiettivo strategico che ancora oggi destabilizza questa zona del mondo, come dimostra la guerra in corso dal 2022 tra Russia e Ucraina.

In tempi più recenti, grazie al progresso scientifico e tecnologico, gli sforzi dell’umanità per avere pane a sufficienza si sono fatti ancora più assidui ed estremi, per non dire prometeici: negli anni Trenta del Novecento si assiste agli esperimenti di T. D. Lysenko, un agronomo sovietico che pensò di sottoporre i semi di frumento a trattamenti di “vernalizzazione” per far sì che si adattassero al freddo glaciale della Siberia, nel tentativo – non riuscito – di creare il cosiddetto “grano artico” e integrare così il grande granaio ucraino (Corinto 2022). Maggiore fortuna hanno avuto i programmi di rinnovamento varietale intrapresi da Nazareno Strampelli, tra i primi agronomi a comprendere che per migliorare la resa del frumento era necessario ridurre l’altezza delle piante, aumentarne la resistenza alle malattie e, soprattutto, adattarne l’epoca di fioritura e maturazione al clima italiano: le sue tecniche di selezione hanno incrementato notevolmente la produzione nazionale di grano, tracciando una strada che è stata seguita da molti altri (Cattivelli 2023, pp. 22-27). Alcuni decenni dopo, il genetista statunitense Norman Borlaug è riuscito a selezionare e introdurre in alcuni paesi dell’Asia e dell’America centro-meridionale varietà di frumento più basse e fruttifere, contribuendo in maniera significativa alla lotta mondiale contro la fame e la sottonutrizione: l’impresa gli è valsa nel 1970 il premio Nobel per la pace (Cattivelli 2023, p. 24; Capocci 2008). Una filastrocca scritta da Gianni Rodari proprio negli anni in cui avveniva la cosiddetta “rivoluzione verde” di Borlaug, intitolata Il pane (1960), esprime con toni fantastici, solo in apparenza naïf, ciò che da sempre rappresenta uno dei bisogni più urgenti dell’uomo: avere a disposizione un cibo-talismano, un alimento buono e inesauribile che possa sfamare una volta per tutte l’umanità.

S’io facessi il fornaio

vorrei cuocere un pane

così grande da sfamare

tutta, tutta la gente

che non ha da mangiare.

[…]

Un pane così

verrebbero a mangiarlo

dall’India e dal Chilì

i poveri, i bambini,

i vecchietti e gli uccellini.

Sarà una data da studiare a memoria:

un giorno senza fame!

Il più bel giorno di tutta la storia. (Rodari 2011, p. 78)

  1. Il Pane di Monte Sant’Angelo: una tradizione contadina e pastorale

Uno degli esempi più emblematici di “pane grosso” italiani è il Pane di Monte Sant’Angelo, una tipologia di pane che ha origine nell’omonima cittadina del Gargano, sede di un celebre santuario micaelico che sin dall’alto Medioevo è meta di pellegrinaggi da tutta Europa, tanto da essere stato dichiarato nel 2011 patrimonio dell’umanità Unesco.

Prodotto normalmente con farina di grano tenero di tipo 0, questo pane a lievitazione naturale ha una forma ampia e tondeggiante che nella sua versione canonica può raggiungere i novanta centimetri di diametro e i dieci chili di peso; le sue grandi dimensioni, assieme alla crosta spessa e croccante e alla mollica compatta ma ben alveolata, gli garantiscono una lunga conservazione, consentendogli di restare fresco anche per due settimane. Il Pane di Monte Sant’Angelo è un’espressione autentica del genius loci, legato com’è alla struttura sociale ed economica, alle caratteristiche antropologiche, alla cultura materiale e al patrimonio immateriale del suo territorio d’origine. Il nome dialettale con cui è chiamato dagli abitanti del borgo, li panètt (la pagnotta), lo accomuna ad altri pani della Capitanata simili per origini, qualità e funzioni, tra cui quello della vicina San Marco in Lamis o quello di Lucera, denotando il rapporto intimo e confidenziale che la popolazione garganica ha con il proprio pane. Il contesto di biodiversità garantito dalla posizione di Monte Sant’Angelo, situata nell’immediato entroterra di Manfredonia a circa ottocento metri di altitudine ma a pochi chilometri di distanza dal Mar Adriatico, è un notevole valore aggiunto per le qualità organolettiche del pane. Questa specificità non è soltanto climatica e geomorfologica, ma anche storica, perché il promontorio del Gargano sin dal Medioevo è stato area di intersezione di due itinerari millenari, i pellegrinaggi verso il locale santuario di San Michele e i ramificati percorsi della transumanza, che spesso, come vedremo, si sono sovrapposti in un unico cammino. La passata centralità di questo territorio[2] ha lasciato in eredità un patrimonio di autenticità e ricchezza che merita di essere riscoperto e opportunamente valorizzato.

L’esistenza del Pane di Monte è documentata, sia pure in forma “anonima” e non ancora codificata, nel volume Folclore garganico, pubblicato nel 1938 dall’etnologo locale Giovanni Tancredi. Lo studioso ne parla en passant, menzionando un non meglio specificato “pane di grano” tra le specialità gastronomiche del luogo e informando laconicamente il lettore che “vi sono di quelli che pesano anche quattordici chilogrammi, destinati ai contadini che devono soggiornare parecchi giorni in campagna” (Tancredi 2004, p. 70). In un altro passo del libro si afferma che il “principale nutrimento ordinario dei contadini è il pane casalingo di frumento col 30-35 per cento di corusca [crusca, n.d.r.] e ben cotto in grandi forni pubblici riscaldati con la legna dei boschi comunali. Ciascuno di essi [ne] mangia giornalmente da uno a due chilogrammi” (Ivi, p. 419). A parte quest’ultima notazione sul consumo pro capite dei braccianti, forse esagerata,[3] appare chiaro come le grosse forme di pane servivano soprattutto a sfamare i lavoratori, i viandanti, i pastori nei frequenti e spesso lunghi periodi lontano da casa, “dove, specialmente in tempi di faccende, si fa presto a consumare tre o quattro pani simili” (Ivi, p. 505).

3.1. La panificazione tra rito e routine

Ancora a metà Novecento, la preparazione del pane era un compito femminile e avveniva in casa, dalla sera all’alba seguente. Propedeutica alla panificazione era la macinazione del frumento, che veniva passato al vaglio per ripulirlo della caniglia, la crusca. I mulini più all’avanguardia, quelli a cilindro, permettevano di ottenere due tipologie di farine, quella a macinazione “bassa” e quella a macinazione “alta”. Nella prima le due componenti della macina, coperchio e fondo, erano tenute più vicine, permettendo di ottenere una farina più sottile; nella seconda i pezzi erano più distanti, producendo una farina più grossolana e ricca di impurità (Ivi, p. 535); in entrambi i casi, comunque, i risultati erano ben lontani dalle farine raffinate moderne. Le macine erano azionate dalla forza animale: gli anziani di Monte Sant’Angelo ricordano ancora i muli bendati che giravano lentamente negli spiazzi del rione Junno, suggestivo quartiere di case e botteghe bianche sottostante al Santuario di San Michele, un tempo abitato soprattutto da contadini e piccoli artigiani.[4]

Il disciplinare di produzione empirico, tramandato di generazione in generazione, iniziava dalla produzione del lievito, che doveva avvenire “la sera precedente alla lavorazione del pane, verso un’ora di notte”, aggiungendo per ogni chilo di farina “un paio di once, cioè una cinquantina di grammi di lievito che, sciolto con acqua calda, si intride con la farina in modo da formare un pastone” (Ivi, p. 504). Dopo la mezzanotte si iniziava a impastare, aggiungendo a piacere patate lesse per ammorbidire l’impasto. La panificazione aveva un ritmo lento e cadenzato, che assumeva a tratti la solennità di un rito sacro, quasi un cerimoniale eucaristico.

 

Prima di coprire la pasta si fanno diversi segni di croce perché fermenti bene e sollecitamente. In seguito si divide la massa pastosa in pezzi più o meno grandi e si appanano (ce resinene) sulla spianatoia (lu taulire), riducendoli in pani rotondi (li panett) i quali pesano cinque, sei, fino a quattordici chilogrammi. (Ivi, p. 505)

 

Dopo essere stati divisi, i panetti venivano infine mandati ai forni pubblici sopra un asse di legno, coperti da un telo leggero. Se si prevedeva di “mandare il pane in campagna”, cioè di destinarlo ai contadini al lavoro nei campi, si preparavano panetti molto grandi; altrimenti, per un consumo domestico, si contenevano le misure. I forni venivano “riscaldati con grossi tronchi di legname dalle ore due. Anticamente cominciava a riscaldarsi il forno a iurne (verso le quattro d’estate e verso le sei d’inverno) e si sfornava fino a 24 ore” (Ibid.). Le famiglie ripagavano i fornai con una parte dei pani cotti: nell’economia di sussistenza del Gargano esistevano ancora forme di scambio solidale.

Nella storia di Monte Sant’Angelo i panifici commerciali sono una novità che risale agli anni Sessanta del Novecento, quando l’industrializzazione e il boom economico contribuirono a migliorare il tenore di vita di una parte della popolazione italiana, anche nel Meridione, modificandone lentamente gli stili di vita e i consumi alimentari. Prima di questo periodo comprare il pane invece di farlo in casa era ritenuto una stravaganza: oggi, probabilmente, è comune opinione il contrario. Furono i forni locali ad avviare la produzione in formati ridotti, da uno a tre chili, più funzionali alle esigenze delle famiglie, sempre più mononucleari e sempre meno frereches, e in ogni caso più attente del passato a una dieta varia e bilanciata. I pani più grossi da allora vengono confezionati soltanto per occasioni cerimoniali o di rappresentanza. La cultura moderna imponeva le sue priorità e la sua nuova idea di praticità e i forni commerciali in poco tempo prosperarono, modificando un intero assetto sociale ed economico. Soltanto un anziano montesantangelese – come ci è stato riferito nella fase di ricerca sul campo propedeutica a questo saggio – ha resistito, romanticamente, a questo cambiamento, continuando fino a pochi anni fa a preparare il pane in casa, di notte, per poi venderlo il mattino seguente nei vicoli del rione Junno: in paese è ricordato, con affetto, come una mosca bianca.[5]

3.2. Crescente e calante: la poetica sincretica e circolare del Pane di Monte

Al netto dei cambiamenti sociali e tecnologici intervenuti negli ultimi anni, il processo di panificazione resta oggi piuttosto fedele alla tradizione, nei tempi e nei modi. Per ottimizzare la produzione si utilizza ancora, come lievito naturale, la cosiddetta “pasta acida” o “di riporto”, chiamata in dialetto lu crescent, il “crescente”. Si tratta di una piccola porzione dell’impasto usato nella panificazione precedente, la cui particolare acidità conferisce al Pane di Monte un sapore meno dolciastro e più neutro del pane di semola che viene consumato in altre parti della Puglia. La lavorazione odierna prevede almeno tre fasi alternate di rinfresco, rimpasto e lievitazione, che si susseguono per circa sei ore: è proprio questa lentezza e questa cura, affermano i fornai cittadini,[6] a dare al pane il suo riconoscibile sapore. Da ultimo, le pagnotte vengono

 

nuovamente rilavorate a mano in forme circolari. Nel caso delle forme più grandi si crea una “strozzatura”, una forma simile a un otto; in questo modo la parte più piccola è rivoltata su quella più grande. Ne risulta una falda che cuocendo aumenta di volume, producendo una grande quantità di mollica nel punto dove è stata piegata. (fondazioneslowfood.com)

 

L’infornatura dura circa un paio d’ore e avviene, oggi come ieri, in forni di pietra refrattaria, adatti a una cottura graduale e omogenea che esalta le qualità organolettiche del Pane di Monte; non vengono mai spenti, se non per pochi giorni all’anno, per non disperdere il calore.

È suggestivo osservare che, se la pasta madre del Pane di Monte è detta “crescente”, il metodo di cottura che viene adottato a memoria d’uomo dai fornai del paese è chiamato invece “calante” (o “a caduta”), dal momento che nella sua parte finale prevede il graduale abbassamento della temperatura dai circa duecento gradi iniziali (montesantangelo.it). Intimamente legata alle stagioni e ai cicli naturali, la produzione del Pane di Monte – dal “crescente” al “calante” – è un procedimento circolare e poetico, simile alle fasi lunari. Questo aspetto cosmogonico e primordiale doveva valere, a maggior ragione, per i montesantangelesi di un tempo, per i quali la panificazione apparteneva a

una dimensione magica e rituali propiziatori presiedevano alla lievitazione e alla cottura. […] Il forno, dove avveniva il passaggio dal crudo al cotto, come tutti i luoghi di passaggio (camini, porte…) risentiva potentemente della magia della lievitazione, correlata – nel suo crescere – al salire in cielo e alla “crescita” del disco solare. (Camporesi 1989, p. 6)

Nella crescita del pane i contadini vedevano un fenomeno miracoloso, soprannaturale, istintivamente assimilato a un mistero sacro che replicava simbolicamente la morte e la resurrezione di Cristo: è fortemente emblematico, in questo senso, che la sua preparazione avvenga di notte e culmini all’alba, quando “il pane, sole miniaturizzato, lievita e si gonfia (sincronizzato col levarsi e col salire in alto del sole), ‘ingravidato’ nel forno infiammato che è insieme utero e vagina, calore e luce” (Ivi, p. 22). Questa visione “magica” del pane è figlia di un misticismo agrario il cui sostrato pagano, con i suoi miti, i suoi riti e le sue routine, non è stato del tutto sovrascritto dal cristianesimo. Nel folclore montesantangelese vi sono molte testimonianze di questo sincretismo religioso e culturale, diverse delle quali dedicate al culto dei morti e, in maniera speculare, alla celebrazione della vita che ritorna. Ad esempio, la diffusa presenza di semi, chicchi e uova nella cucina locale, indicante una precisa analogia “fra vita nuova, rinascita e trionfo sulla morte. La stessa funzione aveva il pane”, che, “come la luna – segno di morte e di rinascita, di crescita e di decrescita – […] assumeva le forme tonde” (Ivi, pp. 19-20). Tra le usanze pasquali vi era quella di preparare la scarascedd, forma di pane che inglobava un uovo, esplicito simbolo di vita, mentre nel Giorno dei Morti si usava preparare del grano condito con vincotto (Tancredi 2004, p. 63). Il Giovedì Santo, inoltre, aveva luogo in paese una tradizione chiamata “lu ’rene d’ lu Subbuleche” (i “grani del Sepolcro”), per la quale le devote allestivano nelle chiese degli altarini dedicati ai defunti con piantine di grano seminate all’inizio della Quaresima, decorate con nastrini e coccarde di vari colori. Si tratta, molto probabilmente, di una sopravvivenza dei “giardini di Adone”, antico rito in onore di una delle principali divinità agresti del mondo pagano, praticato ancora oggi in Sicilia e in Sardegna (Ivi, pp. 28-29). In occasione dell’Epifania, invece, ogni famiglia lasciava sul tavolo del pane bianco e un coltello per consentire ai morti che visitavano nottetempo la casa di sfamarsi. In generale, come riferisce Tancredi, nel periodo di Natale

quasi tutte le famiglie fanno il pane bianco lu ppene suttile (usualmente si mangia il pane bruno): sono grossissimi pani circolari, convessi, che pesano fino a otto, nove chili, detti uceddete. (Ivi, p. 70)

Il pane festivo e il pane funebre erano cibi di conforto (o di consolo), ma anche emblemi “della vita perpetuamente risorgente, del principio (seme) riproduttore, della continuità dell’esistenza […]” (Camporesi 1989, p. 22). Questa idea di circolarità e di sacralità tornava anche nei segni che venivano impressi sul pane prima di infornarlo per distinguerlo da quello delle altre famiglie: “per esempio, una ciambellina di pasta (nu pupratidd), una forma di ditale (nu descetele), una crocetta, un moltiplicato di pasta, uno stampo (nu mirche), la forma di due chiavi, di una forchetta. Qualche panettiera mette tante forme circolari di ditale (iutele) per quanti chili pesa il pane” (Tancredi 2004, p. 505). Resta evidente come, in una società fondamentalmente patriarcale come quella garganica, la forma tonda e capiente del pane alludesse a una visione femminile, solenne, circolare dell’alimentazione.

3.3. Piatti poveri per una società povera

Il pane era il fulcro dell’alimentazione popolare non soltanto nelle occasioni festive e cerimoniali. Il pancotto e l’acquasale erano, ad esempio, tra le pietanze quotidiane dei contadini garganici. Il primo, più invernale, è una zuppa di verdure, patate o legumi – o altri ingredienti stagionali a piacere – in cui viene imbevuto e insaporito il pane vecchio o raffermo. L’acquasale, più estiva, consiste invece in grosse fette di pane tagliate grossolanamente inumidite in acqua aromatizzata con aglio, olio e prezzemolo e farcite con verdure, uova o altri condimenti di recupero. Si tratta di ricette frugali, adatte a ogni pasto, che consentivano alle famiglie di usare i pochi ingredienti a disposizione e sprecare il minimo possibile, in un’ottica di parsimonia assoluta. Per questa ragione, erano una delle merende preferite dai contadini e dai pastori, che vi aggiungevano “erbe colte nei prati” e poco altro: era, in tutta evidenza, una “alimentazione al limite della sopravvivenza, che ha fatto dire a uno studioso del tempo essere ‘minore di quello che avevano gli antichi servi da catena, addetti all’agricoltura’” (Tranasi 2013, pp. 272-273). Questi piatti poveri sono, tuttavia, apprezzati oggi anche dalle nuove generazioni e rappresentano una parte non trascurabile delle loro abitudini alimentari, risultando pienamente integrati nella dieta mediterranea, che sempre più spesso viene indicata come modello “terapeutico” rispetto alle moderne tendenze all’incultura alimentare, ma non è affatto, come è evidente, l’eredità felice e indolore di una pretesa “età dell’oro”, quanto l’esito di un processo di adattamento graduale e difficoltoso, fatto anche di ristrettezze e privazioni, in cui i popoli mediterranei sono stati costretti a fare, come si suol dire, di necessità virtù.

Non bisogna dimenticare che la società montesantangelese, come quella di tutto il Gargano e di buona parte della Capitanata, era afflitta da un endemico stato di miseria, per cui i guadagni dei braccianti, dei pastori e degli artigiani non bastavano quasi mai a far fronte al costo della vita. La fragile economia di sussistenza ricevette peraltro un duro colpo nel 1868, pochi anni dopo l’Unità d’Italia, quando il governo stabilì la tassa sul macinato (abolita solo a decorrere dal 1884), causando un aumento del prezzo del pane che gravava soprattutto sui “ceti rurali, che coltivavano per l’auto-consumo” (Ivi, p. 84). Nei decenni a seguire le condizioni migliorarono, ma secondo un differenziale di crescita assai sfavorevole rispetto ad altre zone d’Italia: era iniziata la cosiddetta “questione meridionale” (Gramsci 2005). Nel 1938, in pieno ventennio fascista, nella provincia di Foggia “il pane costava 1,80 lire al chilo, la pasta 2,70. Sempre nello stesso anno, la giornata di lavoro era di ‘lire 6 e lire 10 [rispettivamente per la donna e per l’uomo], secondo la tariffa’” (Tranasi 2013, p. 227). Facendo un rapido calcolo si evince quanto scarso fosse il potere d’acquisto delle famiglie, che per ovviare alla mancanza di risorse panificavano solitamente con farine di mistura o di frumenti meno nobili, ad esempio l’orzo, tra le colture più praticate a Monte. Uno dei modi con cui la popolazione reagiva alla miseria stringente era l’occupazione dei terreni comunali o demaniali, che cominciò verso la metà dell’Ottocento.

 

Proprio dal “bisogno positivo di coltiva”, dalla miseria e dalla fame dilaganti nacquero le occupazioni di massa che segnarono la storia sociale e politica di Monte Sant’Angelo nel secolo XIX e nella prima metà del XX. (Ivi, p. 85)

 

Da queste occupazioni derivò un assetto fondiario frammentato e irregolare, per il quale ogni nucleo familiare seminava nel territorio comunale le colture che riteneva opportune, a seconda delle caratteristiche dei terreni. La terra di Monte Sant’Angelo, peraltro, non è notoriamente molto fertile, anche perché è in declivio, ed è di qualità varia. Come indica Tancredi, essa può essere quatragnita, cioè argillosa e cretacea, adatta al grano “gigante”; puzzulema, bianca e calcarea, buona per tutte le tipologie di grano; nera e tabacchegna, favorevole ai grani teneri come il bianchetta, la maiorica e la canesca (Tancredi 2004, p. 471). Il bianchetta, in particolare, è una delle colture su cui si sta attualmente puntando per rilanciare l’origine tradizionale del Pane di Monte Sant’Angelo, come si vedrà a breve.

  1. Scambi transculturali sui percorsi della transumanza

L’agro di Monte Sant’Angelo si presenta dunque, al pari di tutto il promontorio garganico, come una enclave colturale vocata al grano tenero all’interno di un territorio – quello del Tavoliere – normalmente coltivato a grano duro, e di una regione – la Puglia – conosciuta per i suoi prodotti a base di semola.[7] In quest’area “ci sono nicchie in cui la coltivazione di [grano] tenero ha una lunga tradizione” (montesantangelo.it): in passato, infatti, gli agricoltori della zona garganica “vendevano grano duro sul Tavoliere e tenevano per il Gargano il grano tenero, facendone il protagonista della propria cucina” (granifuturi.com). Il Pane di Monte è in questo senso il prodotto di una “insularità” che lo accomuna più agli analoghi pani di grano tenero del centro Italia (come quello di Genzano, laziale, o di Solina, abruzzese) che ai corregionali di grano duro. Una delle spiegazioni di questa peculiarità può essere, come è stato ipotizzato, lo storico influsso dei vicini Abruzzo e Molise, in cui da sempre si seminano varietà di grano tenero, che può aver giustificato un certo apporto di caratteri extralocali, esogeni.[8] I continui scambi osmotici e transculturali con queste regioni affondano del resto le radici nella comune tradizione contadina e pastorale, corroborata da secoli di contatti, mescolanze e contaminazioni lungo i percorsi della transumanza. Questa, com’è noto, attraversava la dorsale adriatica da nord a sud, tra le montagne e il mare: i pastori partivano con le greggi per raggiungere la Puglia, dove restavano al pascolo per alcuni mesi (Greco 2023), come descritto da Gabriele D’Annunzio ne I pastori.

Settembre, andiamo. È tempo di migrare.

Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori

lascian gli stazzi e vanno verso il mare:

scendono all’Adriatico selvaggio

che verde è come i pascoli dei monti. (D’Annunzio 2018, p. 387)

La “Regia dogana della mena delle pecore” apriva ufficialmente i tratturi il 29 settembre per chiuderli l’8 maggio, termine entro il quale i pastori dovevano tornare a casa. Il periodo della transumanza era dunque compreso, come fa notare Bronzini, tra “l’inizio e la fine dei grandi lavori agricoli: semina e mietitura” (Bronzini 1980, p. 180). Questi estremi coincidevano, in modo significativo, con le due festività liturgiche dedicate a San Michele, che era il patrono dei viaggiatori e dei pastori, ma, certo non a caso, anche il dedicatario della basilica di Monte Sant’Angelo: nella festa di maggio si celebrava la sua consacrazione a santuario, mentre in quella di settembre cadeva la festa liturgica in onore del santo (Ibid.). I pellegrinaggi verso il Santuario, anche quelli a corto raggio, si addensavano soprattutto in questi due periodi dell’anno. Secondo la leggenda, la basilica micaelica fu edificata verso la fine del V secolo dopo Cristo nel luogo che il santo stesso aveva consacrato imprimendo la sua orma nella roccia in seguito a una apparizione (Belli D’Elia 1992; Aulisa 2008). Si trova in una profonda grotta naturale a cui si scende mediante una scala monumentale,[9] sulle cui pareti di roccia viva si possono notare decine di iscrizioni e graffiti che testimoniano la lunga frequentazione da parte dei pellegrini, che giungevano qui da tutta Europa, singolarmente o in compagnie (Carletti 2000; Otranto 2009). Il prestigio della “Basilica celeste” nel Medioevo era tale che, a pochi decenni dalla fondazione, fu istituita a sua imitazione l’abbazia normanna di Mont Saint Michel (Otranto 2009, p. 20).

4.1. Il pane come ricompensa: la funzione catartica del cammino

Per i cristiani San Michele è quis ut Deus (colui che è come Dio) e svolge la funzione di psicopompo, cioè di guida delle anime nell’Oltretomba. Il suo principale attributo è la spada, con la quale ha domato – anche se non ucciso – il diavolo, che tiene fieramente sotto un piede. Nell’iconografia dell’Alto Medioevo l’Arcangelo era spesso accostato al dio Mercurio, con cui aveva in comune le ali, la bilancia per la pesa delle anime che portava in alcune rappresentazioni e, cosa non meno importante, il duplice patronato su pellegrini e pastori (Piroci Branciaroli 2002); i longobardi lo identificavano per le sue doti di guerriero in Wotan, l’Odino della mitologia nordica, e anche per questo motivo, nel momento in cui strapparono il Gargano ai bizantini, intorno al 650 d.C., elessero la basilica di Monte Sant’Angelo a sacrario nazionale (Otranto 1983). Sono particolarmente devoti a San Michele, per la contiguità culturale e territoriale a cui si è accennato, anche i popoli abruzzesi e molisani, che, come i pugliesi, vissero sotto il dominio longobardo fino al 774 d.C. Molti sono, del resto, in queste regioni i toponimi consacrati all’Arcangelo (Mascia 2000, p. 25), del quale alcune leggende locali narrano la “lotta itinerante” (Ivi, p. 8) con il Diavolo – sorta di variante del mito folclorico della “caccia selvaggia” (Dondeynaz 2016) – che, secondo la fervida immaginazione popolare, sarebbe iniziata presso una grotta in Molise e terminata proprio nel punto in cui è poi sorto il Santuario di Monte Sant’Angelo. “Facile […] cogliere in questa corsa tra il Molise e la Puglia il viaggio transumante lungo i tratturi che per millenni ha segnato la vita dei pastori delle nostre zone” (Mascia 2000, p. 8).

Sulle medesime vie della transumanza si compievano usualmente i pellegrinaggi dei fedeli molisani e abruzzesi, umili e pittoreschi cortei di popolo non privi di suggestioni bibliche (Ibid.), come descritto dal campobassano Francesco Jovine nel racconto I contadini vanno al piano.

Il loro viaggio verso l’Arcangelo Michele che preme col piede Lucifero incatenato, nero cornuto, è un viaggio verso una terra ricca, di ampio orizzonte, lambita dal mare. E forse quest’ampiezza dell’orizzonte, la terra uniforme e indifesa che l’aratro può velocemente ferire; la promessa del grano, degli armenti che dà ai molisani pellegrini il senso dell’allegrezza e dalla liberazione. (Jovine 1967, pp. 124-125)

Nell’immaginario di chi veniva dall’entroterra appenninico questo cammino si trasfigurava in una sorta di esodo verso una terra più generosa e fertile, dove pascevano le greggi e biondeggiavano le messi, secondo una variante agreste e pastorale dei miti dell’abbondanza. Poco importa, per i meccanismi illusori e consolatori del mito, che le condizioni socioeconomiche di questo territorio non fossero in realtà così floride. La frequentazione degli abruzzesi e dei molisani si intensificava, come riferisce anche Tancredi, specialmente in occasione della festa di maggio, quando il borgo montanaro si riempiva di pellegrini che portavano i caratteristici cappellini con le penne colorate, segno della devozione popolare per il santo. La loro familiarità con questi luoghi era tale che in molti finivano per stabilirsi sul Gargano.[10]

Nell’economia del cammino assumeva un’importanza particolare l’alimentazione, che era sempre cospicua, abbondante: i viaggiatori solitamente “recavano con sé, nella bisaccia, il cibo per il viaggio”, ma “una volta giunti a Monte avrebbero comprato il pane di San Michele (le grandi forme di pane di Monte Sant’Angelo)” (Casiraghi e Sergi 2009, p. 105). Il pane grosso locale rappresentava, da questo punto di vista, una specie di ricompensa per chi arrivava da lontano, inerpicandosi sulla montagna, spesso trasportando grosse pietre e percorrendo le vie più accidentate a mo’ di penitenza. Si trattava di un pasto finale, liberatorio e premiale, che nella struttura simbolica del pellegrinaggio svolgeva una duplice funzione, pratica e rituale (Bronzini 1980, p. 179). Questo senso di abbondanza catartica permane ancora oggi nelle strade della cittadina garganica, soprattutto nei giorni di festa, quando i negozianti espongono orgogliosamente le vistose forme del Pane di Monte su un cavalletto di legno piazzato in strada, come fossero opere d’arte povera, in un’atmosfera rustica e accogliente che affascina i turisti e i devoti. Il Santo che “è come Dio” ricompensa i pellegrini della fatica compiuta per arrivare. Vale la pena, in proposito, riportare i pensieri espressi da tale Gaugello da Urbino, un viandante di metà Quattrocento che, nel resoconto in volgare del suo pellegrinaggio a Santiago di Compostela, scritto curiosamente in terzine di endecasillabi, si sofferma a ricordare anche le basiliche di San Nicola di Bari e di San Michele sul Gargano. Il pellegrino riflette in particolare sulla generosità del santo guerriero, che – osserva – ha donato al borgo “non solo il nome, ma anche pane, vino e caciocavalli e ogni altro mezzo di sussistenza” (Otranto 2009, p. 18).[11] In effetti, il Santuario ha esercitato nei secoli su Monte Sant’Angelo una funzione che si può definire “poleogenetica” (Ivi, p. 19), cioè fondativa e generativa. Sorta come modesto insediamento di case rurali e ricoveri per i forestieri (Bertelli Buquicchio 1997), la cittadina garganica si è sviluppata infatti in una direzione che non si può dire religiosa in senso assoluto e “aristocratico”, cioè integralmente spirituale, ma ha saputo mantenere la sua origine umile e popolare, contemplando forme di autenticità, profili di resistenza spontanea e “poetica” verso una interpretazione troppo stringente e brutale della modernità, elementi di cultura indigena e materiale e di storia sociale che nel tempo si sono sedimentati in un invidiabile patrimonio valoriale (che oggi risulta tuttavia, per la verità, in parte offuscato).

 

  1. Conclusioni: ri-narrare la tradizione

Incluso nel 2005 nell’Atlante dei Pat, l’elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali italiani (patpuglia.it), il Pane di Monte Sant’Angelo è stato oggetto negli ultimi anni di una vera e propria riscoperta, che è passata inevitabilmente anche attraverso i canali social. Un breve video pubblicato nel febbraio del 2024 sul canale TikTok “Pugliafenomenale”, che riprende un panettiere di Foggia mentre sta tagliando a vista dei clienti una grande forma di Pane di Monte, ha totalizzato diversi milioni di visualizzazioni in tutto il mondo ed è stato rilanciato da molti portali e quotidiani on line nazionali. Le caratteristiche che hanno destato la curiosità degli utenti sono state, stando ai commenti, la grande dimensione del pane e il rumore pieno provocato dall’azione del taglio (Leuzzi 2024), indice di fragranza e croccantezza, nonché madeleine di una vita rustica, domestica, in grado di generare una sorta di “effetto nostalgia”. Il successo riscontrato dal video sembra peraltro connesso non solo all’“attrattività” specifica del pane, ma anche alla grande pervasività dei fenomeni di foodtelling sui social media: nella fattispecie, si può parlare di “Mukbang” (termine di origine sudcoreana che vuol dire “mangiare in diretta”), una forma di “voyeurismo del cibo” in grado di generare sensazioni positive negli spettatori attraverso la stimolazione sensoriale-neuronale nota come Asmr[12] (Hanwool 2019; Russell 2019).

Nel 2022 il Pane di Monte Sant’Angelo è stato incluso nella prestigiosa “Arca del gusto” dei “Presidi Slow Food”, al termine di un processo di valutazione che ha coinvolto diversi stakeholder. L’obiettivo di Slow Food è stato quello di redigere assieme ai forni e ai produttori di farina locali uno specifico disciplinare di produzione, finalizzato alla tutela della filiera corta e degli areali di produzione e, soprattutto, al rispetto della tradizione di Monte Sant’Angelo e della tipica biodiversità garganica, una ricchezza che finora è emersa solo in parte. Il documento non consiglia l’utilizzo di particolari farine – lasciando libera ai panificatori la scelta tra la “0”, “1”, “2” e l’integrale –, ma raccomanda che queste siano prodotte da aziende con mulini in pietra, mediante una lavorazione minima.

Il principio cardine del Presidio è, nella fattispecie, il recupero delle “varietà locali di grani teneri, legate alla grande tradizione cerealicola della Capitanata, coltivate con metodi di agricoltura eco-sostenibili”.[13] Le aziende che hanno sottoscritto il disciplinare lavorano normalmente il Frassineto (il “frasnes” della tradizione)[14] e il Bianchetta, che nel territorio garganico è ritenuto il frumento tenero per eccellenza.[15] Da entrambi ottengono farine di tipo 1, che hanno un colore più scuro e una consistenza più irregolare delle farine di tipo 0 e 00 e sono dunque classificabili per caratteristiche “tra la tipo ‘0’ e la semi-integrale”;[16] queste farine, grossolane e poco raffinate, sono attualmente utilizzate dai forni per la produzione del “nuovo” Pane di Monte.[17]

Le indicazioni di Slow Food sembrano orientate a contrastare una certa tendenza recente alla “corruzione” degli sfarinati, verificatasi in seguito alla commercializzazione del pane nei forni della zona, avviata a partire dalla seconda metà del Novecento. Negli ultimi decenni si è registrato, infatti, un progressivo allontanamento dai grani tradizionali e “antichi”, dovuto secondo gli esperti a una serie di motivazioni socioeconomiche, in primis il calo del numero dei piccoli coltivatori locali, provocato dal processo di spopolamento dell’area garganica e dal conseguente abbandono delle aree rurali in corso in questi anni per effetto della crisi occupazionale. Logiche di convenienza economica e strategie commerciali, pure, hanno indotto molti forni “a scegliere farine di grano tenero d’importazione, italiane ed estere”[18] o a mescolare la farina di grano tenero con altre farine di grano duro al fine di “ottenere un prodotto più adatto alla vendita” (puglia.com). In definitiva, la mancanza di una disciplina chiara e condivisa nella produzione del Pane di Monte ha creato negli anni un senso di confusione e di ambiguità che non giova alla riconoscibilità del prodotto, il quale di fatto è risultato indistinguibile per i consumatori rispetto ad altri pani di origine garganica o della Capitanata, come quelli di San Marco in Lamis e di Lucera.

Questa tendenza all’autogestione si sta comunque arrestando. La raccomandazione di Slow Food di utilizzare per la panificazione la pasta di riporto, il “crescente” – che, come detto, è una parte dell’impasto del giorno prima – va, ad esempio, esattamente in questa direzione, perché incoraggia i forni a sviluppare una propria “autotradizione”, contribuendo a mantenere vivo quel microcosmo di sapori, storie e stili di panificazione differenti – ma convergenti nel formato, nella preparazione lenta, nel legame sentimentale, viscerale con la terra garganica – che è la tradizione plurisecolare del Pane di Monte Sant’Angelo. Già si prospettano, tuttavia, alcuni potenziali fattori di criticità implicati dalla creazione “a freddo” del nuovo disciplinare: tra tutti, il costo maggiorato delle farine, provenienti da produzioni poco più che artigianali, che incide notevolmente sul prezzo finale del pane, aggiungendosi agli aumenti del costo del grano e dell’energia conseguenti alla guerra in Ucraina. Si pone, insomma, il nodo della sostenibilità dell’operazione, correlato alla difficoltà oggettiva di far comprendere al pubblico locale e nazionale in cosa è cambiato esattamente il “nuovo” Pane di Monte rispetto alla sua ricetta tradizionale, già largamente apprezzata. Un buon tentativo, in questo senso, potrebbe essere quello di sviluppare con convinzione le “etichette narranti” di cui parla l’articolo 8 del disciplinare Slow Food, pensate come apparati esplicativo-regolativi per “offrire ai consumatori la massima trasparenza sulle pratiche di lavorazione seguite”,[19] a integrazione delle informazioni previste a norma di legge. Queste, a nostro avviso, non dovrebbero tuttavia limitarsi a illustrare gli aspetti tecnico-produttivi della panificazione, ma rappresentare gli aspetti tipici e caratterizzanti, la cultura storica e le nuove prospettive a cui si richiama il Pane di Monte Sant’Angelo, creando una connessione emotiva e identitaria con la sua tradizione.

La versione del Pane di Monte che si ottiene seguendo il disciplinare targato Slow Food è, paradossalmente, più simile al grande pane “senza nome” descritto da Tancredi in Folclore Garganico che a quello prodotto – con la definizione ufficiale – nei forni cittadini negli ultimi decenni. È un pane bruno, spesso, dalla consistenza importante, che si inscrive nella lunga tradizione dei “pani grossi” e contadini di cui abbiamo parlato nella prima parte di questo saggio. Si tratta di un alimento sobrio, privo di “fronzoli” e mortificanti concessioni al marketing, fatto prima di tutto per sfamare, ma che proprio per questa funzione schietta e primigenia sembra ancora legato a valori autentici, profondamente umani, anzi “umanistici” – che sono peraltro distintamente percepiti dai suoi estimatori. Il Pane di Monte Sant’Angelo è, in ultima analisi, la risultante di due grandi caratteri italiani e lato sensu mediterranei: l’infinita varietà culturale-territoriale e la capacità inimitabile di trasformare la necessità in valore.

 

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Note

[1] Ciò non vuol dire che nei contesti più cittadini e borghesi non fossero in assoluto presenti esempi di “pane grosso”, ma vi erano altrettanto diffusi pani di pezzatura ridotta, a testimonianza di una dieta più moderata e sofisticata, calibrata sull’individuo. Basti pensare all’origine di pani piccoli e “personali” come le michette, le rosette, i panini, attestata soprattutto lungo il Po (Comolli 2019).

[2] Come ricostruisce Giorgio Otranto, la Puglia e in particolare i suoi santuari furono sin dall’Alto Medio Evo una parte non trascurabile dell’immaginario culturale del tempo: “Terra di santuari e terra di transito, la Puglia era attraversata da due vie di scorrimento veloce come l’Appia e la Traiana e da una fitta serie di strade secondarie, diverticula, sentieri, tratturi, costituenti un complesso sistema viario che ha facilitato contatti e rapporti fra Oriente e Occidente. Lungo le vie e le rotte pugliesi hanno viaggiato da sempre mercanti, naviganti, pellegrini, missionari, imperatori, re, uomini e donne di ogni estrazione sociale, che hanno contribuito a diffondere concezioni, esperienze, dottrine e, in ambito religioso cristiano, i culti dei santi, tra i quali, appunto, quello dell’Arcangelo, già molto radicato in ambienti ebraici e bizantini”. I “tanti pellegrinaggi sul Monte Gargano”, uniti agli evidenti tentativi “di riprodurre altrove il modello del santuario pugliese, i numerosi antroponimi di pellegrini provenienti da tutta Europa, la ricorrenza della tradizione cultuale garganica in martirologi e opere agiografiche altomedievali [,] fanno del santuario di Monte Sant’Angelo un vero meeting point di pellegrini romani, bizantini e germanici e del culto micaelico un fenomeno di respiro europeo, un fenomeno che rappresenta emblematicamente la nuova visione della storia e della cultura dei secoli V-VIII, non più, o non solo, classicistica e romanocentrica, ma romanobarbarica ed europeista” (Otranto 2008, p. 1 e p. 8).

[3] Lo storico Michele Tranasi respinge con veemenza questa stima, addebitandola al fatto che Tancredi, fondatore del museo etnografico locale, faceva parte delle gerarchie fasciste e aveva dunque il massimo interesse a fornire una rappresentazione edulcorata delle condizioni di vita della gente di Monte. “Il quadro d’insieme che viene fuori […] è di un surrealismo allarmante: è quello di una società, se non proprio opulenta, quanto meno che si è lasciata alle spalle, e in maniera definitiva, la miseria e la fame. […] A leggere queste cose, si direbbe che Monte Sant’Angelo negli anni Trenta somigliasse un Eldorado, abbondante di ogni sorta di prodotti della terra, di ogni delizia della natura, con felici abitanti, governato, ovviamente, da eccellenti amministratori. […] Il Tancredi era un esponente organico del fascismo, del quale non perde occasione a cantare le lodi: il libro è zeppo di espressioni inneggianti al Duce e al suo regime” (Tranasi 2013, pp. 228-229).

[4] Molte informazioni contenute in questo paragrafo circa la tradizione novecentesca e preindustriale del Pane di Monte, ancora di matrice contadina e non già commerciale, sono tratte dall’emozionante colloquio che abbiamo avuto con il signor Domenico Palena, una figura di artigiano-cantastorie molto popolare in città e negli immediati dintorni, autore di pregevoli statuette in cuoio raffiguranti soggetti sacri e profani, tra cui San Michele, e per questo appartenente all’ammirata categoria dei sammecalere, ovvero degli scultori di effigi micaeliche. Abbiamo incontrato Palena nel suo suggestivo laboratorio nel rione Junno nel gennaio 2024.

[5] Dalla testimonianza del signor Domenico Palena.

[6] Buona parte delle notizie riportate in questo paragrafo circa la panificazione moderna e i suoi aspetti tecnologici e strumentali è ricavata dal colloquio-intervista avuto con Giovanna Rinaldi, titolare del forno “Moretti” a Monte Sant’Angelo. L’incontro è avvenuto nel gennaio del 2024.

[7] Alcuni produttori locali di farine sostengono che, prima della bonifica, in Capitanata vi fossero molte più terre coltivate a grano tenero e che la coltivazione estensiva di grano duro è in realtà successiva agli anni Trenta del Novecento. Sostiene questa tesi, tra gli altri, Leonardo Petruccelli, titolare dell’azienda “Zilletta di Brancia”, con il quale abbiamo interloquito nel gennaio 2024. Anche Giovanni Tancredi era persuaso della discontinuità esistente tra il Gargano e la provincia foggiana, al punto da affermare: “Data l’eterogeneità delle due parti di cui si compone, che, come abbiamo dimostrato, presentano una natura fisica ed una economia divergente, si impone la separazione del Gargano come Provincia” (Tancredi 2004, p. 237).

[8] Quella dello scambio “per contiguità” dei semi e delle piante con le regioni vicine è anche l’ipotesi di molti panificatori di Monte, tra cui Giovanna Rinaldi, titolare del forno “Moretti”, da noi intervistata.

[9] Ai tempi dei longobardi, fino alla sistemazione data dagli Angioni al Santuario (nel XIII secolo), si accedeva dalla parte della montagna, non del borgo; dunque l’ingresso alla grotta avveniva dopo un percorso ascensionale-penitenziale, detto la “Scala Santa”.

[10] Lo stesso artigiano Palena, da noi intervistato, afferma che la sua famiglia ha antiche origini abruzzesi e, esattamente nel 1663, si trasferì nel nord della Puglia, tra Manfredonia e Monte Sant’Angelo. Palena è anche il nome di un comune situato sulla Maiella, nel sud dell’Abruzzo.

[11] Questa visione provvidenziale e “alimentare” di San Michele è ribadita in una storia popolare di Terlizzi (Puglia), per la quale l’Arcangelo una volta si sarebbe prestato a espiare i peccati di un suo devoto, scontando tre anni di penitenza in terra, dove si sarebbe fatto apprezzare – così racconta la leggenda – per le sue qualità di cuoco (Bronzini 1988, p. 517).

[12] L’acronimo in inglese sta per “autonomous sensory meridian response”, traducibile nell’italiano “risposta sensoriale meridiana autonoma”.

[13] Dal disciplinare di produzione del Pane di Monte pubblicato dai “Presidi Slow Food”, che ci è stato cortesemente messo a disposizione dal forno “Moretti”.

[14] Il Frassineto, si legge in una nota di produzione dell’azienda Zilletta di Brancia, è “un grano antico molto alto, mutico, creato all’inizio del 1900 per selezione e ampiamente coltivato qui nel Tavoliere”. Cfr. “Farina di tipo 1 – Frassineto” in zillettadibrancia.com. [Scaricato da] https://zillettadibrancia.com/product/farina-tipo-1-di-grano-tenero-frassineto/. Il Frassineto è, come conferma Luigi Cattivelli in Pane nostro, una delle colture di grano tenero tornate di moda in questi anni (Cattivelli 2023, p. 21).

[15] Dalla nota di produzione della “Farina di tipo 1 – Bianchetta” dell’azienda Zilletta di Branca. [Scaricato da] https://zillettadi brancia.com/product/farina-tipo-1-bianchetta/.

[16] Ibid.

[17] Lo conferma Giovanna Rinaldi, titolare del forno “Moretti”, da noi intervistata.

[18] Cfr. il disciplinare di produzione dei “Presidi Slow Food”.

[19] Ibid.