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“I confini del mio linguaggio significano i confini del mio mondo”. Riflessioni filosofiche sul tema del confine

Invitato a offrire alcune riflessioni di carattere filosofico sul tema del confine, o dei confini al plurale—per il quale invito ringrazio nuovamente gli organizzatori dell’evento odierno—le prime idee ed impressioni che incominciarono a girarmi per la testa erano tanto personali quanto prosaiche.[1] Spero quindi che non Vi dispiaccia troppo se do l’avvio al mio intervento condividendole con Voi senza alcun pudore. Anzi, mi auguro sinceramente che siano di Vostro gradimento. Mi saprete dire, alla fine del mio racconto iniziale, se così sarà stato o meno.

Le idee ed impressioni in questione non sono altro che delle lontanissime e, oramai, quasi mitologiche memorie d’infanzia. Anche i professori di filosofia, benché baffuti, barbuti e ancor più spesso barbosi, sono stati bambini. Era il secolo scorso. Nato a Genova e cresciuto in Liguria, ero solito trascorrere le vacanze estive ad Andora, nella Riviera di Ponente; il Comune più occidentale della provincia di Savona, per intenderci. Più volte, un mio carissimo zio portava me, mio fratello e i nostri due cugini rivieraschi a visitare Nizza e Montecarlo, dove c’era un bell’acquario, nonché museo del mare, ben prima che ne venisse costruito uno ancora più voluminoso e, mi permetto di dire, famoso, in quel di Genova nel 1992, in occasione del cinquecentenario della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo. (Notate bene che, quale cittadino islandese, sono ora tenuto a riferire in questa sede che gli islandesi ritengono d’aver scoperto loro l’America. Al contempo, le popolazioni indigene dell’America del Nord sono ancora di un’altra opinione. Lascio a Voi dirimere la faccenda.)

Ma torniamo a me bambino. Ricordo tuttora l’emozione che mi prendeva quando arrivavamo a Ventimiglia—nota ai più oramai e, devo aggiungere, ahimè, per ben più tristi vicende legate ai difficili flussi migratori che avvengono all’interno dell’Unione Europea. Eccola là: la frontiera. Il confine italo-francese. Per me bambino, era un po’ come il Far West di Tex Willer o Sergio Leone. Le occhiatacce da parte degli ufficiali, armati e in uniforme, e i documenti d’identità da esibire, se e quando richiesti, erano di rigore. Il Trattato di Maastricht non esisteva ancora. L’essere cittadini europei, formalmente liberi di passare da uno Stato all’altro senza controlli di nessun genere, era ancora un pio ideale, un po’ come doveva esserlo all’epoca della Giovine Europa di Giuseppe Mazzini, anch’egli genovese come me, ovverosia negli anni ‘30 del XIX secolo. Ogni volta che si raggiungeva la frontiera, chissà perché, temevo che non ci facessero passare.

La memoria più strana era che ci si fermava prima ad un casello per fare i controlli del caso con gli agenti italiani. Non ricordo se fosse sempre e solo la Guardia di Finanza a farli o la Polizia di Stato. Se non addirittura i Carabinieri. Poco dopo, sempre che la memoria non mi inganni, si ripeteva la stessa cosa con quelli della gendarmerie francese. Dove si trovava il confine, esattamente, mi chiedevo: presso gli agenti italiani, presso quelli francesi, a metà strada, o in qualche altro punto tra i due estremi?

In chiave minore, la stessa domanda mi sorgeva in mente da bambino quando osservavo i cartelli situati lungo un’altra autostrada che annunciavano la fine della Liguria e l’inizio del Piemonte. Sì, lo so bene, di solito il percorso ce lo si immagina al contrario, a causa dei tanti turisti che vanno a trascorrere le vacanze al mare, accolti dall’amorevole e calorosa ospitalità tipica della gente della mia regione d’origine. Nel mio caso, tuttavia, si faceva il percorso opposto, soprattutto per andare a fare la settimana bianca sulle Alpi insieme ad altre famiglie di amici genovesi. Roba degna di Paolo Villaggio e Gigi Reder, in tutta onestà.

Crescendo, ho poi scoperto che questo genere di domanda, apparentemente stravagante se non addirittura stupida, aveva stuzzicato l’interesse di svariati studiosi. In particolare, il tema del confine o del limite estremo di un’entità sembrava avere attirato l’attenzione degli esperti in alcuni campi di ricerca dai nomi bizzarri, se non esoterici e, come i severi doganieri, anche un po’ minacciosi—senza volerlo fare apposta—ovverosia:

  1. la topologia,
  2. la mereologia e
  3. l’ontologia.

La prima disciplina non è lo studio dei ratti, anch’essi creature di degno pedigree fantozziano, ma quella branca della matematica che, grossomodo, si occupa delle figure geometriche le cui proprietà e relazioni precipue non dipendono dalla nozione di misura, ma bensì da operazioni di deformazione nello spazio logico-matematico. La seconda, invece, è la branca della logica formale che studia le relazioni e le proprietà relative al tutto e alle sue parti, o a un intero e le sue parti, e viceversa. La terza, la quale dal punto di vista lessicale è forse leggermente più nota rispetto alle altre due, è la branca della filosofia che studia l’essere o l’esistere degli enti nelle sue molteplici varietà.

Indipendentemente dai nomi un po’ curiosi di queste tre discipline, tutti e tre coniati o affermatisi in secoli relativamente recenti, la questione che mi ponevo da bambino, ovvero di dove si trovasse precisamente il confine o il limite tra due entità adiacenti, ha radici ben più antiche. Questo, almeno, per quel che riguarda la filosofia occidentale, la quale si è sempre divertita a osservare le realtà più ovvie e apparentemente banali dalle prospettive più insolite e sorprendenti, un po’ come fatto anche dalla poesia, dal teatro o dall’umorismo. Il grande Luigi Pirandello, in maniera quasi sintomatica, mescolava assieme tutte e quattro queste modalità della creatività umana con maestria straordinaria.

È probabile che molti tra di voi abbiano incontrato una sorta di parente stretto di queste antiche radici filosofiche ai tempi del liceo, studiando i paradossi della cosiddetta Scuola Eleatica e di uno dei suoi membri più importanti, Zenone. In particolare, mi riferisco al paradosso di Achille e la tartaruga, che vi illustro così come fu reso dal grande scrittore e saggista argentino Jorge Luis Borges (vd. ivi):

Achille, simbolo di rapidità, deve raggiungere la tartaruga, simbolo di lentezza. Achille corre dieci volte più svelto della tartaruga e le concede dieci metri di vantaggio. Achille corre quei dieci metri e la tartaruga percorre un metro; Achille percorre quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro, la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga percorre un millimetro; Achille percorre quel millimetro, la tartaruga percorre un decimo di millimetro, e così via all’infinito; di modo che Achille può correre per sempre senza raggiungerla.

Nel caso dei confini geografici, i due punti di riferimento non sono in movimento relativo. Achille e la tartaruga—la seconda dei quali con grande calma e ammirevole aplomb—si spostano invece nello spazio l’uno rispetto all’altra. Il caso di Ventimiglia, pertanto, è solamente analogo al loro, e di certo non identico. Tuttavia, ed è ciò che importa per noi al momento, il problema della divisibilità infinita tra due punti di riferimento nello spazio sussiste in entrambi i casi. In altre parole, se possiamo dividere all’infinito lo spazio che separa la guardia di finanza dell’imperiese—o polizia che fosse—dalla gendarmerie del nizzardo, quando e come, esattamente, possiamo dire di essere passati da un punto all’altro, ossia dall’Italia alla Francia, dalla Riviera di Ponente alla Costa Azzurra? O, ufficiali in divisa e mare a parte, dalla Liguria al Piemonte?

Non è necessario avere una striscia o un lembo di terra perché si ponga questa tipologia di problemi logico-matematici e filosofici. Leonardo da Vinci, per esempio, si chiedeva nei suoi Quaderni che cosa fosse ciò che separa l’aria dall’acqua: aria o acqua?[2] Suárez nelle sue Disputazioni di metafisica del 1597 si domandava di che colore fosse la linea di demarcazione che si trova tra una macchia nera e il suo sfondo bianco: nero o bianco?[3]

Lo stesso problema si può presentare anche in chiave temporale. Nel dialogo intitolato al fondatore della Scuola Eleatica, Parmenide, Platone si interrogava sul quesito seguente. Quando un oggetto inizia a muoversi, o un oggetto in movimento si ferma, è esso in movimento o è fermo?[4] Più tardi, Aristotele si trovò a riflettere su se e come il presente, che è il confine sia del passato sia del futuro, debba essere per necessità uno e il medesimo con essi, perché se i due confini estremi fossero delle entità costitutivamente diverse, allora l’una non potrebbe succedere all’altra.[5] E tutto questo per non tornare ai paradossi logici cari a Zenone, il quale si divertiva a dividere all’infinito anche il tempo, così da dimostrare che il moto non esiste.

Nella storia della filosofia e della scienza si sono andate accumulando le risposte più varie a questo tipo di quesiti.

  1. C’è chi ha sostenuto che il confine tra due entità distinte non appartenga a nessuna delle due. Leonardo da Vinci, per esempio, sembrava favorire questa soluzione. L’Italia e la Francia, da questo punto di vista, non coprirebbero tutto il territorio europeo di loro competenza, perché il loro confine sfuggirebbe, per così dire, a entrambi gli Stati. Sarebbe un po’ come quei confini tra orti o pascoli che appartengono a due contadini diversi. Visto che nessuno dei due ci mette mano, si riempiono di erbacce e di piante selvatiche.
  2. C’è chi ha suggerito che il confine appartenga invece a una entità piuttosto che all’altra, sebbene a volte, o addirittura tutte le volte, noi non siamo in grado di determinare con esattezza a quale delle due. Di chi è il confine tra l’Italia e la Francia, allora? Boh? E chi lo decide? E su quali basi? È un mistero. Ho qualche sospetto, però, riguardo a quale soluzione piacerebbe di più al presidente francese Macron. O a Giorgia Meloni, se per quello.
  3. C’è chi ha concluso che il confine appartenga a entrambe le entità. L’Italia e la Francia, quindi, condividerebbero il confine. Sovrapposizione reciproca. Comunione e unione. Pace e amore. Il che può piacere dal punto di vista giuridico e morale, o persino da quello politico e religioso; ma è probabilmente meno convincente sotto quello cromatico, almeno per quel che riguarda il paradosso in discussione nella versione offerta da Suárez alla fine del ‘500. Il confine tra il punto nero e lo sfondo bianco dovrebbe essere infatti sia bianco che nero, violando così il principio logico di non contraddizione.
  4. C’è infine chi ha pensato che ci siano in effetti due confini, o due estremi, ossia uno per ciascuna entità, i quali, tuttavia, coincidono perfettamente. Ancora una volta, pertanto, comunione e unione, pace e amore, ma in tal caso quale perfetta ed equipollente collocazione spaziale. Contatto senza sovrapposizione. Possibile? Forse in matematica. Suárez, benedetto metafisico, ci causerebbe un altro grattacapo. Una linea bianca che coincide con una nera, infatti, dovrebbe produrre qualcosa di grigio. La psicologia è concorde. Le illusioni ottiche studiate dai membri della cosiddetta scuola della Gestalt nel secolo scorso hanno approfittato a piene mani di queste aree grigie che noi percepiamo per il solo fatto che due oggetti neri in campo bianco siano molto vicini, così come tutti i buontemponi che ripropongono le loro illusioni ottiche su Instagram o altri social media.

Non chiedetemi di risolvere tutte queste stramberie. Se non ci sono riusciti fior di logici e matematici negli ultimi duemila anni, non c’è speranza che ci riesca io in venti minuti. Piuttosto, mi limito semplicemente a far notare che, benché queste quattro linee di pensiero si escludano l’un l’altra, non è affatto detto che ciascuna di esse possa o debba risolvere da sola tutti i casi possibili o concepibili. Difatti, anche se tutti i casi citati sono classificabili come “confini”, non tutti i confini devono per forza essere identici sotto tutti o la maggior parte dei punti di vista. (Il perché e il come qualcosa possa essere al contempo una cosa e molte cose è un altro classico dilemma della metafisica antica e moderna. Meglio lasciarlo perdere, per il momento.)

Così, tanto per capirci, possiamo distinguere tra:

  1. confini artificiali (ad es. quello tra l’Italia e la Francia) e confini naturali (ad es. quello tra l’aria del cielo e l’acqua del mare sottostante);
  2. confini ben definiti (ad es. lo spazio logico-matematico compreso all’interno di una circonferenza e quello esterno ad essa) e confini vaghi (ad es. quello tra l’aria e l’acqua, se e quando studiati a un livello di analisi subatomico); nonché
  3. confini incorporei (ad es. quelli comunemente postulati in geometria) e confini corporei (ad es. quelli dei solidi opachi studiati dagli psicologi della percezione).

Ma le stramberie non finiscono qui. Come detto, d’altra parte, la filosofia non è poi così remota rispetto all’umorismo. Sentite: C’è persino chi sostiene che i confini non esistano in sé e per sé. La cosa può sembrare folle, oltre che ridicola. Lo so. Di che diavolo abbiamo parlato sino a questo punto? E che cosa ci facevano i finanzieri a Ventimiglia? Prendevano il sole?

Per quanto questa idea appaia stralunata, o probabilmente lo sia, la si può concepire per davvero, anche se in maniera astratta, se non astrusa. E mi riferisco alla non-esistenza dei confini. Non ai doganieri che si abbronzano. Pensiamo, per analogia, ai buchi. Esistono i buchi? Pescatori, muratori e formaggiai potrebbero rispondere immediatamente di sì. I buchi sono importanti nei loro ambiti di lavoro. Qualche fisico o esperto di ontologia, però, potrebbe suggerire che esistono in effetti solo solidi o cose bucate, non buchi. O ancora: Esistono i colori? Pittori, stilisti e razzisti direbbero probabilmente di sì. Nuovamente, un fisico o un filosofo potrebbero sostenere che esistono in realtà solo solidi o cose colorate. I confini, di conseguenza, si ridurrebbero ad entità confinate, se non confinanti—come la Francia e l’Italia, appunto.

Tutti questi arzigogoli teorici e lessicali nascondono un aspetto concreto di non poco conto. I confini potrebbero essere un’invenzione della mente umana, almeno in una qualche misura significativa, piuttosto che una realtà oggettiva, ovvero del tutto indipendente da noi.[6] Nel caso di Ventimiglia, il confine italo-francese non sarebbe altro che una delle tante creature del diritto e della politica. Sparissero gli esseri umani, sparirebbero il diritto e la politica, e quindi sparirebbe anche il confine che tanto colpiva la mia immaginazione da bambino.

Non che questa sia una qualche critica. Se parliamo, pensiamo e viviamo le nostre vite in termini di “confini”, se cioè noi umani li abbiamo creati o accresciuti attraverso le nostre culture, i nostri apparati cognitivi, o la nostra immaginazione, allora detti confini avranno probabilmente avuto una qualche funzione da svolgere. Forse ce l’hanno ancora. Diritto e politica, d’altra parte, possono essere strumenti utilissimi, tanto quanto la fisica o la matematica.

Tuttavia, concedendo anche solo in chiave ipotetica che i confini possano davvero essere delle semplici creazioni umane, piuttosto che delle condizioni oggettive, nude e crude, del reale o, peggio ancora, delle divinità eterne e spietate, allora si può iniziare a non coglierli più quali aspetti rigidi del nostro universo, ovvi e immutabili, o perfino sacri e assoluti; ma, piuttosto e come detto, quali strumenti. Come le reti dei pescatori, i coltellacci dei formaggiai o i martelli pneumatici dei muratori, i confini sarebbero degli attrezzi che noi usiamo per determinati scopi e che, pertanto, ammettono usi positivi e usi negativi, potenziali o attuali che siano. Ed è qui la sola perla di saggezza che mi sento di poter fornire questa sera, se posso ardire a tanto.

Troppo spesso si discute di confini e confini no, di difendere i confini o abolire i confini, di erigere muri o abbatterli, accogliere o respingere. Piuttosto, io penserei a come distinguere tra confini buoni e confini cattivi. Così come si può distinguere tra muri buoni e muri cattivi. I muri possono infatti separare due gruppi di esseri umani, condannandone uno alla miseria perpetua e l’altro alla paura perpetua, ed entrambi all’odio. I muri, però, possono servire ugualmente a sorreggere un ampio tetto che, per esempio, protegge sia l’uno che l’altro gruppo. E, data la quantità di pioggia e di neve che ci dobbiamo sorbire qui in Islanda, credetemi: Un buon tetto è di fondamentale importanza.

Ma che cosa esattamente deve dirsi “buono” o “cattivo”? Non bisogna andare in Parlamento per sentire le opinioni più disparate sul tema. Fate un giro sui profili Facebook dei vostri amici, andate al bar all’angolo e porgete orecchio alle conversazioni che vi si tengono, od organizzate una cena con i vostri parenti—soprattutto quelli che sopportate di meno. La faccenda è chiara. Qualcuno dovrà scegliere tra le tante opzioni e decidere per il bene di tutti. E qui si rischia di nuovo il patatrac. Chi mai può decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo: il Papa, il Presidente della Repubblica, il Sindaco, mia suocera, il capo dei Carabinieri, un qualche megadirettore galattico?

La questione è spinosa. È un’altra magagna che il pensiero occidentale discute senza requie dai tempi di Socrate. Chi ha studiato diritto può sicuramente richiamare alla mente i dibattiti tra giusnaturalisti e positivisti. Continuano ancora oggi. Gli antropologi possono pensare al tema del relativismo culturale. Sempre vivo. Gli economisti a quelli dell’ordinalismo e dell’ofelimità. Sempre intuibili. Nuovamente, non posso offrire una soluzione semplice e definitiva.

Tuttavia, dati i miei studi in un campo della filosofia che porta un altro nome fantasmagorico, l’assiologia—ovverosia la teoria dei valori—mi permetto di condividere un modestissimo esercizio mentale che, a mio avviso, può essere d’aiuto quando si vuole distinguere il bene dal male. Di fronte a uno strumento umano, tangibile o intangibile, e ai suoi possibili utilizzi, individuali o collettivi, chiedetevi: quale uso massimizzerà il benessere fisico, quello psichico e la capacità di pensiero di tutte le persone coinvolte, presenti e future? Di fronte a un muro, una barriera, un confine, chiedetevi: come lo si può utilizzare in maniera tale che la salute, la serenità e il livello d’istruzione delle persone da entrambe le sue parti ne traggano il massimo beneficio?

Siamo forse di fronte a un’altra curiosa finzione filosofica? O a un’astratta utopia? No, non credo. È l’approccio indicato nel XXI secolo dall’UNESCO nella sua Enciclopedia dei sistemi di supporto vitale,[7] nonché dalle convenzioni dell’ONU del XX secolo sui diritti civili, politici, sociali, economici e culturali.[8] Non abbiamo tempo per discuterne in dettaglio, ma vale sempre la pena ricordare come i rappresentanti dei popoli della Terra abbiano già firmato e ratificato accordi internazionali che contengono indicazioni copiose, sofisticate e articolate su ciò che si può dire “buono” o “cattivo”, nonostante il fiorire di molteplici relativismi in tante altre aree della vita umana. Non so se questo appunto finale conti come un’altra perla di saggezza, ma mi pareva quanto meno saggio concludere con un concetto carico di speranza. Grazie mille.[9]

 

Note

[1] Il titolo cita Ludwig Wittgenstein, Trattato logico-filosofico (proposizione 5.6; vd. ivi).

[2] Vd. The Notebooks; selected Eng. trans. by E. MacCurdy, London: Reynal & Hitchock, 1938: 75–76.

[3] Vd. Disputationes metaphysicae; in Francisci Suarez Opera Omnia, voll. 25–26, Paris: Vivès, 1861, 40, V, §58.

[4] 156c–e.

[5] Fisica, VI, 234a5–6.

[6] Euclide, nel libro primo degli Elementi, definiva “termine” come “ciò che è estremo di qualcosa”, e “figura” come “ciò che è compreso da uno o più termini” (definizioni 13 e 14; vd. ivi).

[7] Vd. “Philosophy and World Problems” in EOLSS (dal 2002).

[8] Vd., ad es., Baruchello & Johnstone,  “Rights and Value”, Studies in Social Justice 5:1 (2011), ivi.

[9] La fonte principale per questo mio intervento è la seguente: Varzi, Achille, “Boundary”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2023 Edition), Edward N. Zalta & Uri Nodelman (eds.), ivi. Il prof. Varzi, da anni docente negli Stati Uniti, visitò la mia alma mater genuate ai tempi dei miei primi studi di filosofia, ove svolse una relazione sull’ontologia dei buchi organizzata dal compianto professore di psicologia cognitiva e informatica, Giuseppe Spinelli. È quindi una grande-piccola gioia poter rievocare quei tempi e quegli spunti, nonché i nomi di entrambi gli accademici testé citati, a così tanti anni di distanza.