by Nicla Vassallo
The following text is from my book Teoria della
conoscenza published by Laterza
some years ago. I have chosen to offer it
here, in memory of my friend and
colleague Flavio Baroncelli, for three
basic reasons. First of all, more than
twenty years ago, Flavio offered to be the
supervisor of my graduate thesis on an epistemological theme in
modern philosophy.
I have not forgotten that possibility and have in recent times
come to
reflect upon both the type of epistemology
and the philosophers that were beloved by Flavio. The text which
follows these introductory remarks is a testament to this. Secondly,
when he knew that I was interested in the
epistemology of testimony, Flavio urged me to
go on,
because of the importance of that topic not only for general
epistemology, but also for many other
branches of philosophy. Thirdly, on
the occasion of the publication of Teoria della conoscenza,
Flavio participated on the round
table in which it was presented to the public and had something like
this to say: “I read the whole book with the same breath, as it
was a detective story”. In his memory, I cannot but hope to
write other “detective stories”
Il testo che segue è tratto dal mio volume Teoria della
conoscenza uscito da Laterza qualche anno or sono. Ho scelto di
riproporlo qui, in memoria dell’amico e collega Flavio
Baroncelli per tre ragioni fondamentali. Innanzitutto, più di
vent’anni fa, mi era stata offerta da Flavio la possibilità
di laurearmi con lui su un tema epistemologico della filosofia
moderna. Non avendolo dimenticato, sono tornata recentemente a
riflettere (come attesta quanto segue) proprio su un tipo di
epistemologia e su autori cari a Flavio. In secondo luogo, più
recentemente, quando ha saputo che mi stavo interessando di
epistemologia della testimonianza Flavio mi ha sollecitato a
continuare, evidenziando che l’importanza dell’epistemologia
in questione travalica i confini della stessa epistemologia generale.
In terzo luogo, quando ha partecipato, in occasione dell’uscita
del volume, alla tavola rotonda in cui si è discusso di Teoria
della conoscenza, Flavio ha detto qualcosa come: “L’ho
letto tutto d’un fiato. Come se fosse un libro giallo”.
In sua memoria, non posso che sperare di scrivere altri libri gialli.
Si possono rilevare ovvie connessioni tra le diverse
fonti conoscitive. Per accennare a un solo esempio, al fine di poter
ricordare che p, dobbiamo prima aver percepito che p, o inferito che
p, o essere stati consapevoli che p o aver avuto una testimonianza
che p. E’ sulla testimonianza che intendiamo ora soffermarci di
più, per due motivi principali: in primo luogo, a differenza
delle altri fonti conoscitive, è stata epistemologicamente
poco indagata e vedremo che le sono state ingiustamente preferite
altre fonti conoscitive, quali la percezione e il ragionamento; in
secondo luogo, gli umani sono esseri sociali che hanno sviluppato e
continuano a sviluppare un sofisticato sistema di mutuo scambio
d’informazioni e di conoscenze. Molto spesso le nostre
credenze, o le nostre conoscenze, sono dovute alle parole degli
altri, all’altrui testimonianza, cioè derivano non solo
dalla familiare conversazione faccia a faccia, ma anche dalla
conversazione telefonica, da quanto ascoltiamo alla radio, dai
documenti scritti, dagli scambi via e-mail, da internet. Se ci
affidassimo solo alla percezione, alla memoria, alla consapevolezza,
alla ragione, ma non alla testimonianza, conosceremmo decisamente
meno di quanto supponiamo di conoscere: non potremmo conoscere gli
eventi del passato, o quegli eventi del presente che sono molto
lontani da noi, o quelle teorie scientifiche che sono al di fuori del
raggio delle nostre competenze. Non potremmo conoscere neanche fatti
molto banali che diamo per assodati, quali che la terra è
rotonda, abbiamo un cervello, la nostra data di nascita è il
tal giorno, mese e anno, i nostri genitori biologici sono Tizio e
Caio. La stessa scienza non costituisce un territorio alieno dalla
testimonianza. Molte teorie che uno scienziato accetta dipendono da
quanto altri scienziati sostengono. Lo stesso vale per i dati, poiché
spesso uno scienziato non esegue personalmente tutti gli esperimenti
necessari in cui i dati vengono acquisiti, né l’analisi
dei medesimi: queste sono operazioni che, il più delle volte,
richiedono troppo tempo per essere eseguite da un singolo soggetto
cognitivo. Inoltre, le ricerche scientifiche vengono sempre più
portate innanzi da gruppi, e non da singoli: è una necessità
dovuta al fatto che la conoscenza dei singoli non è
sufficiente per condurre esperimenti.
Se è vero che ogni osservazione è
“theory-laden” (“carica di teoria”), cioè
è sempre dipendente dalla teoria, anche le osservazioni dello
scienziato sono legate alla testimonianza: è attraverso
quest’ultima che per la maggior parte vengono trasmesse le
teorie. La psicologia della Gestalt e Wittgenstein (1953) sono gli
antesignani della nozione di “theory-laden”, mentre
Hanson (1958) l’ha sviluppata compiutamente. Egli si chiede se
Keplero, che crede che la terra si muova attorno al sole, e Tycho
Brahe, che crede il contrario, vedano il medesimo evento quando
osservano il sole sorgere. Secondo Hanson, rispetto al sorgere del
sole, Keplero e Tycho Brahe si trovano nella medesima condizione di
noi tutti quando osserviamo le immagini ambigue e vediamo cose
diverse (in una stessa immagine possiamo vedere un’anatra o un
coniglio; in un’altra immagine, una donna anziana o una giovane
avvenente, e così via). Hanson giunge a concludere che
l’osservazione è un’impresa “theory-laden”,
condizionata dalla conoscenza anteriore di quanto si osserva e
influenzata anche dal linguaggio, che viene impiegato per esprimere
ciò che sappiamo, senza l’ausilio del quale saremmo in
grado di riconoscere davvero poco come conoscenza. E le teorie ci
vengono per la maggior parte trasmesse attraverso la testimonianza.
Non è, peraltro, necessario affrontare nei
dettagli una qualche scienza per comprendere la nozione di
“theory-laden”; è sufficiente considerare una
semplice proposizione osservativa dell’esperienza quotidiana,
come “Aiuto, Virginia sta annegando nel mare!”. Questa
affermazione dipende evidentemente da una teoria, teoria che implica
l’esistenza di una persona chiamata Virginia, la quale possiede
la proprietà di annegare, e l’esistenza di un oggetto
chiamato mare in cui si può annegare. Inoltre, l’espressione
“aiuto” trasmette una richiesta di soccorso, legata al
fatto che una persona chiamata Virginia stia annegando e si trovi,
quindi, di fronte all’evento di potersi fare male o,
addirittura, di morire. L’affermazione, pertanto, è sì
legata alla percezione, ma dipende, a sua volta, da una teoria
complessa e composta da proposizioni, o credenze, o conoscenze, in
chi parla o in chi ascolta, relative all’esistenza delle
persone, delle cose, delle proprietà, delle richieste e degli
eventi. Queste credenze vengono acquisite in tenera età e
vengono, per la maggior parte, trasmesse per testimonianza dai
genitori o dagli insegnanti.
Il termine “testimonianza” evoca
comunemente l’immagine di un palazzo di giustizia. Qui la
testimonianza è spesso legata al ragionamento. Se sono un
giudice non accetto tout court una testimonianza, ma valuto il
testimone - sia che egli sia un testimone oculare, sia che egli
riporti una teoria scientifica (balistica o psichiatrica, e così
via). Colloco la testimonianza nell’ambito del processo e la
soppeso, alla luce della mia conoscenza di sfondo, per accogliere ciò
che sembra vero solo sulla base di un’ottica ampia. Cosicché
l’accettazione di una testimonianza viene qui a dipendere da un
ragionamento: date le premesse che (supponiamo) il testimone sembra
credibile e che le sue affermazioni collimano con quanto so a
proposito del caso giudiziario in questione, giungo a credere con
ragione ad esse.
Sembra, allora, che la testimonianza sia una fonte
conoscitiva secondaria rispetto al ragionamento, poiché lo
presuppone. Nella vita quotidiana, tuttavia, le credenze prodotte
dalla testimonianza hanno carattere inferenziale solo quando vengono
riferite proposizioni che ci paiono strane. Vediamo un caso. Si
immagini di incontrare una persona Y, a noi ignota, e che questa ci
riferisca di essere stata ad un convegno dove il professore X ha
mostrato forti segni di squilibrio mentale. Dato che conosciamo bene
X e non abbiamo mai dubitato della sua salute mentale, sospendiamo il
giudizio sulla testimonianza, o rimaniamo increduli. Man, mano che il
racconto di Y procede, ragioniamo e siamo in grado di valutare la
credibilità della sua testimonianza per poi accettarla o di
rifiutarla. In genere, però, quando ci vengono riferite
proposizioni che non ci risultano anomale, la testimonianza non
richiede nostre inferenze. Quando amici fidati ci testimoniano una
certa proposizione e non abbiamo ragione di pensare che la
proposizione in questione sia al di là delle loro competenze,
normalmente la crediamo punto e basta. Più, in generale,
quando le persone ci testimoniano qualcosa, noi semplicemente le
crediamo, se quanto ci testimoniano non è in conflitto con
qualche nostra credenza o conoscenza precedente. Consideriamo il
nostro tipico comportamento durante una situazione comune della vita
quotidiana: un viaggio. Dobbiamo recarci a Barcellona. Il nostro
agente di viaggio ci vende un biglietto aereo e noi crediamo a quanto
egli ci riferisce circa l’ora di partenza e di arrivo
dell’aeroplano. Una volta giunti a destinazione, in albergo, il
cameriere ci telefona, annunciandoci che il pranzo sarà
servito dalle 13.30 alle 15.30, e ci affidiamo a quanto egli afferma.
Dopo pranzo, vogliamo vedere alcune opere di Antoni Gaudì.
Leggiamo la nostra guida turistica e non dubitiamo che essa riporti
la verità circa gli indirizzi della Casa Batllò, della
Pedrera, della Sagrada Familia. Da quando siamo partiti fino alla
nostra consultazione della guida, abbiamo accettato diverse
testimonianze, senza alcuna inferenza. Tale accettazione è
un’importante caratteristica psicologica della nostra vita
quotidiana.
Perché allora l’epistemologia della
testimonianza non gode di un ampio riconoscimento? Non tanto perché
l’epistemologia viene tradizionalmente distinta dalla
psicologia, ma piuttosto perché la giusta valutazione della
testimonianza è stata fortemente ostacolata da una concezione
individualista del soggetto cognitivo. Descartes, considerato da
molti il fondatore della teoria della conoscenza in senso moderno, è
convinto ad esempio che il soggetto cognitivo debba essere libero e
rispettabile sotto il profilo epistemico, e possa esserlo solo se non
fa conto sulla testimonianza. A capo dei razionalisti moderni,
Descartes, come i suoi successori, conferisce priorità alla
ragione e al ragionamento su qualsiasi altra fonte conoscitiva. Gli
empiristi dissentono e privilegiano la percezione. Non tengono,
tuttavia, la testimonianza in maggiore considerazione: nel Saggio
sull’intelletto umano, Locke afferma che i progressi
conoscitivi reali si hanno solo nella misura in cui noi stessi
consideriamo la verità e percepiamo il mondo, e non nella
misura in cui accettiamo l’altrui testimonianza.
L’assoluta svalutazione della testimonianza,
operata da Descartes e Locke, va incontro a qualche difficoltà.
Partiamo dal programma cartesiano e dal suo solipsismo metodologico:
al soggetto cognitivo è imposto di contare solo sulle proprie
evidenze interiori al fine di sconfiggere lo scettico e di conseguire
quella conoscenza certa dalla quale derivare la dimostrazione
filosofico-razionale dell’esistenza di Dio e del mondo esterno.
All’inizio delle Meditazioni metafisiche Descartes
rigetta, innanzitutto, la testimonianza della Bibbia, per, poi,
disfarsi di tutto quanto ha appreso nel corso della sua esistenza e
ripartire da zero per fondare una conoscenza e una scienza ferme e
durevoli. Si può, però, rilevare che tale mossa non gli
è consentita: per scrivere le Meditazioni, egli deve
contare ancora sul linguaggio e, pertanto, non può rinunciare
alle conoscenza di esso: una conoscenza che egli, come del resto noi
tutti, ha sicuramente appreso attraverso la testimonianza,
intenzionale o non, di altri soggetti. Possiamo apprendere, per
esempio, la parola “gatto”, sia osservando che c’è
un gatto ogniqualvolta qualcuno pronuncia la parola “gatto”
(testimonianza inintenzionale), sia, più frequentemente,
perché qualcuno ci dice “questo è un gatto”,
quando c’è un gatto, o perché ci dice “il
gatto è un animale a quattro zampe che miagola”
(testimonianza intenzionale). Se Descartes intende scrivere le
Meditazioni, egli è costretto ad ammettere l’importanza
della testimonianza quale fonte conoscitiva: non ammettendola, egli
non può scriverle – potrebbe, forse, pensarle, ma non
dal punto di vista di chi sostiene che non è possibile pensare
se non in qualche linguaggio.
Veniamo ora a Locke e agli empiristi. Contro la priorità
da loro conferita alla percezione, se ci si limita all’osservazione
visiva, sussiste il problema, già citato, che ogni
osservazione è “theory-laden”: non è,
pertanto, consentito privilegiare la percezione, senza privilegiare
anche la testimonianza. Certo, a favore degli empiristi, si può
notare il fatto che accade di rifiutare una testimonianza in virtù
delle nostre individuali osservazioni. Tornando al nostro esempio,
una volta a Barcellona, vogliamo recarci a visitare La Pedrera.
Chiediamo indicazioni a un passante il quale risponde: “Dritti,
avanti verso nord per Passeig de Gràcia, sulla sinistra”.
Proseguendo nella direzione indicataci, osserviamo, ad un certo
punto, La Pedrera sulla destra e questa nostra osservazione ci
conduce a ricusare la testimonianza secondo la quale essa avrebbe
dovuto trovarsi sulla sinistra. La nostra ricusazione è però
– ribadiamolo – a favore degli empiristi, solo se ogni
osservazione non è “theory-laden”, ossia, non è
dipendente, in ultimo, dalla testimonianza. E, d’altronde,
contro gli empiristi, si può addurre il fatto speculare che ci
capita di rifiutare le nostre osservazioni in virtù di una
testimonianza, come (per esempio) nel caso in cui stiamo
attraversando in traghetto l’arcipelago della Maddalena e alla
nostra affermazione “Quella è l’isola di Budelli”,
il marinaio replica “No, vi sbagliate, quella è l’isola
di Razzoli”: reagiamo rigettando la nostra affermazione insieme
all’osservazione che la sostiene e accettiamo la testimonianza
del marinaio.
Gli estremismi di un certo empirismo a proposito della
testimonianza non convincono Hume che dichiara: «Non c’è
una specie di ragionamento più comune, più utile e
anche necessario alla vita umana, di quello che si ricava dalla
testimonianza e dai resoconti di testimoni oculari e di spettatori»
(1748, 1957, p. 124). A parte il fatto che, come vi è visto,
la testimonianza non è necessariamente legata a un qualche
ragionamento, questa dichiarazione rivaluta l’importanza di
essa. Tuttavia, Hume, da buon empirista, non le attribuisce il
medesimo status che alla percezione; a quest’ultima viene
attribuita una posizione in ogni caso privilegiata: egli propone di
giustificare la nostra accettazione della testimonianza riscontrando,
proprio attraverso l’osservazione, che i fatti corrispondano a
quanto ci viene testimoniato. Uno dei problemi ovvi di questa
proposta è che le testimonianze riportano fatti che, per lo
più, risultano alla maggior parte di noi inaccessibili sotto
il profilo osservativo.
A dissentire da Hume è Reid che, in An Inquiry
into Human Mind (1764), sottolinea, contro la concezione
individualistica del soggetto cognitivo, il nostro essere creature
sociali, predisposte ad affidarci alla testimonianza naturalmente, e
non in virtù delle ragioni, o giustificazioni, di cui
disponiamo: se dovessimo basarci su queste ultime non crederemmo, né
conosceremmo, un centesimo di quanto ci viene detto. Secondo Reid, il
principio della veracità (siamo propensi a dire la verità)
e il principio della credulità (siamo propensi a credere agli
altri) sono sempre all’opera in noi, a meno che non
intervengano altri fattori, quali, possiamo supporre, l’accorgerci
che il testimone è un mentitore, o il possesso d’evidenza
contraria rispetto a quanto ci viene testimoniato, o il prendere atto
che la testimonianza è in conflitto con le nostre credenze. La
considerazione di questi altri fattori introduce, in ogni caso, il
problema della giustificazione. In termini reidiani possiamo
affermare che, per essere giustificati a credere una certa
proposizione p riferitaci da un certo testimone T, requisiti minimi
sono il nostro comprendere p, il non aver alcuna valida ragione di
dubitare della sincerità di T, il non disporre d’alcuna
buona evidenza contro p, o d’alcuna credenza in conflitto con
p. A questo si può aggiungere il requisito che impone di non
aver alcuna valida ragione per pensare che non sia giustificata la
credenza di T relativamente a p, o il requisito più forte che
impone di aver una valida ragione per pensare che sia giustificata la
credenza di T relativamente a p.
Posti davanti alla domanda “perché credi
che una certa proposizione p sia vera?” o di fronte alla
domanda “come fai a sapere che una certa proposizione p è
vera”, abbiamo potenzialmente a disposizione diverse risposte:
(i) percepisco che p, (ii) ricordo che p, (iii) inferisco che p, (iv)
sono consapevole che p, (v) mi viene testimoniato che p. (i) può
verificarsi di fronte a proposizioni del tipo “il gatto è
sul divano”: la fonte conoscitiva corrispondente è la
percezione. Si può prospettare (ii) in presenza di
proposizioni del tipo “il mio trisavolo si chiamava Napoleone
Vassallo”: la fonte conoscitiva corrispondente è la
memoria. Si può delineare (iii) nel caso di
proposizioni del tipo “Tutti gli uomini sono mortali e Socrate
è un uomo, quindi Socrate è mortale” (inferenza
deduttiva) o “Il corvo1 è nero, il corvo2
è nero, il corvo3 è nero, ..., il corvon
è vero, tutti i corvi sono neri” (inferenza induttiva):
la fonte conoscitiva corrispondente è la ragione o il
ragionamento. Si può ottenere (iv) di fronte a tutte le
proposizioni che riguardano la conoscenza di sé (es. “penso
di essere felice”, “immagino un mare color smeraldo”;
“sento di amarla”): la fonte conoscitiva corrispondente è
la percezione interna o la consapevolezza o l’introspezione.
Infine, proposizioni del tipo “Clinton è stato
presidente degli Stati Uniti” o “Ipazia era una filosofa,
astronoma e matematica greca” o “2 + 2 = 4” o
“Marte è un pianeta del nostro sistema solare”
possono dare adito alla risposta (v): la fonte conoscitiva
corrispondente è la testimonianza. Le prime quattro
fonti conoscitive sono individuali, mentre la quinta è
sociale: questo significa solo che la conoscenza ottenuta per mezzo
della testimonianza necessita dell’interazione sociale e non
che è il sociale, piuttosto che l’individuale, a
conoscere veramente.
(Tratto da Nicla Vassallo, Teoria della conoscenza,
Laterza, Roma-Bari, 2003. Si ringrazia l’editore Laterza per
averne gentilmente concesso la riproduzione.)
Nicla Vassallo (Imperia, 1963), autorevole specialista
di filosofia della conoscenza, è attualmente Professore
Ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di
Genova e Visiting Professor di Epistemologia presso l’Università
Vita-Salute San Raffaele di Milano. Book Review Editor della rivista
Epistemologia, membro dell’Advisory Board dell’European
Journal of Analytic Philosophy, dell’Institute for
Scientific Methodology, di L&PS: Logic and Philosophy of
Science, della rivista Iride: Filosofia e discussione
pubblica, fa parte del Consiglio scientifico del Festival
della scienza, del Festival per l’Economia
Interculturale, dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute
della Donna. Tra le sue numerose pubblicazioni scientifiche (che
hanno meritato sessantacinque menzioni su The Philosopher’s
Index) ricordiamo alcuni volumi in italiano: Teoria della
conoscenza (Laterza, Roma-Bari 2003, seconda edizione 2008) in
qualità di autrice, Filosofia delle donne (Laterza,
Roma-Bari 2007, seconda edizione 2007) in qualità di
co-autrice, Filosofia delle conoscenze (Codice Edizioni,
Torino 2006) in qualità di curatrice, Filosofia della
comunicazione (Laterza, Roma-Bari 2005; seconda edizione 2006) in
qualità di co-curatrice. Scrive regolarmente su Domenica,
il supplemento culturale del quotidiano Il Sole–24 Ore.
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