Tag Archives: secularization

Per un’“archeologia filosofica” della secolarizzazione. Agostino, Gioacchino da Fiore e i paradigmi cristiani del pensiero secolare

What are the legitimate criteria to be applied in attempting to assess the direct influence of one thinker on another, of one system of thought on another?

Marjorie Reeves and Warwik Gould in Joachim of Fiore and the myth of the eternal evangel in the nineteenth century

 

L’archeologia è, in questo senso, una scienza delle rovine, una “rovinologia” il cui oggetto, pur senza costituire un principio trascendentale in senso proprio, non può mai veramente darsi come un tutto empiricamente presente

Giorgio Agamben, Signatura rerum

 

Introduzione

Questo testo ha un duplice obiettivo. Si vuole qui affrontare il pensiero della secolarizzazione nelle sue interpretazioni, con particolare attenzione al contesto nordico innervato dalla tradizione della archeologia filosofica italiana. D’altro lato il tema stesso è strettamente collegato alla questione del metodo come mostrano le citazioni summenzionate. Con il pensiero della secolarizzazione intendiamo non solo il pensiero esplicito ma anche le supposizioni implicite connesse ad esso. Per esempio: che la secolarizzazione implicherebbe e sarebbe causata da una rottura spirituale con la religione, rottura caratterizzata come progresso (Koselleck & Meier 2004, Marramao 1994); e che se la religione ha avuto un ruolo importante nel processo di secolarizzazione, lo si deve al protestantismo (Weber 1995) piuttosto che al cattolicesimo.È per questo motivo che, secondo la sociologia della religione, la Norvegia sembra essere oggi una società più che mai progredita e secolarizzata (Botvar & Schmidt 2010, Furseth 2015). Ma è vero che la secolarizzazione corrisponde a questa idea di rottura e progresso in rapporto con la religione? O il concetto di “secolarizzazione” può significare anche altre cose? Nella sociologia della religione ci si chiede il più delle volte come misurare il processo di secolarizzazione, ma raramente cosa significhi il “pensiero della secolarizzazione”. Questo articolo non si propone dunque di ripetere le tradizionali posizioni del dibattito sulla secolarizzazione: vale a dire che il pensiero moderno sulla secolarizzazione abbia iniziato il proprio cammino attraverso una rottura e una critica della religione e che esso sia un fenomeno sviluppatosi nell’ambito riformato. Si cercherà piuttosto di dimostrare che entrambe queste posizioni hanno il loro fondamento nel cristianesimo pre-Riforma: in particolare che lo si ritrova già, in due modi completamente opposti, in Agostino e Gioacchino da Fiore. In altre parole, sia il pensiero laico che quello protestante della secolarizzazione si fondano su una “rovina” (in senso agambiano) cristiana e pre-riformata.

Per indagare su tutto ciò, non è sufficiente, secondo noi, fare una ricostruzione genealogica dei concetti-chiave della modernità, come fa per esempio Giacomo Marramao a proposito del concetto di “secolarizzazione” (1994, 2005). Bisogna anche localizzare tramite un “archeologia filosofica” (Agamben 2004, 2008, Bonfanti 2016, Cavazzi 2010) i paradigmi e fondamenti (“rovine”) di questo pensiero. Paradigmi che nonostante siano storici, funzionano anche come fondamenti ed esempi per il pensiero d’oggi.  L’archeologia filosofica riguarda non tanto la storia delle idee del passato, quanto il presente.  Per questo l’esame della storia del pensiero della secolarizzazione necessita proprio di questo metodo d’indagine “archeologico filosofico”, in grado di mostrare che la storia del pensiero non è mai un dato nel passato, ma una “storia di una cosa non avvenuta” (Kant in Agamben 2004). “L’arché verso cui l’archeologia regredisce non va intesa in alcun modo come un dato situabile in una cronologia…essa è, piuttosto, una forza operante nella storia”, scrive il filosofo Giorgio Agamben (Agamben 2008, 110). Grazie al concetto di “paradigma” intimamente collegato alla “filosofia archeologico” cercheremo d’identificare queste forze senza pretendere di datarle una volta per tutte. Infatti la presenza delle “forze” cristiane operanti nella storia del pensiero della secolarizzazione, sono in parte inconsapevoli, e questo crea confusione.

Ci si potrebbe domandare come individuare le forze cristiane della secolarizzazione celate dalla confusione che si manifesta nella contemporaneità. Per fare ciò, occorre trovare un fenomeno esemplare che metta sulle loro tracce. Riteniamo di averlo trovato nell’intervista che il vescovo di Oslo della chiesa luterana Kari Veiteberg ha concesso durante la trasmissione televisiva sul Natale (“Kvelden før kvelden”) il 23 dicembre 2019 al canale nazionale norvegese NRK. Nell’intervista il vescovo disse fra l’altro: “Vedo Gesù in tutti coloro che sono in fuga. E Gesù nel presepio nella stalla e la sacra famiglia in fuga mi sfidano. E penso che dovrebbero sfidarci tutti ad accogliere tutti coloro che sono in fuga” (NRK, 2019). Certo, questa affermazione si inserisce nel contesto della crisi dei rifugiati, contesto sfortunatamente sempre attuale. Quello che ci interessa qui però, è come comprendere questa asserzione. Essa sembra essere una miscela di due elementi eterogenei: un messaggio religioso e la sua rilevanza in relazione ad una problematica sociopolitica, diremmo “mondana”. Infatti, la dichiarazione del vescovo è comprensibile sia per i credenti che per i non credenti, e può rendere il “messaggio di Natale” significativo per entrambi cristiani e non cristiani: non è chiaro, dunque, se sia un’asserzione secolare o religiosa. Si tratta di un messaggio che si adatta al mondano, secolare e temporale, o piuttosto di un inglobamento religioso del mondano, secolare e temporale? In entrambe le possibilità (adattamento o inglobamento) la sfera religiosa e la sfera secolare sono separate perché il pensiero della secolarizzazione moderno crede di aver deciso di separarle. Da questo punto di vista possiamo chiamare pensiero moderno quello che in generale divide le cose (Latour 1997) e secolare quello che in particolare divide le questioni religiose e le questioni mondane (che riguardano l’ambito politico).

Un altro esempio paradigmatico che vede ancora coinvolto il vescovo Veiteberg è un dibattito con il rappresentante politico, deputato per il partito di estrema destra FRP, Christian Tybring-Gjedde. Questi, discutendo la proposta di Veiteberg del 2021 di un boicottaggio di Israele, sostiene che: “questa dovrebbe essere l’ultima cosa che fa [Veiteberg] come vescovo nella Chiesa di Norvegia” e che lei “deve scegliere tra essere attivista politica o vescovo” (Dagbladet, 2021). Esigendo che Veiteberg debba scegliere, Tybring-Gjedde si rifà implicitamente ad una tradizione del secolarismo, fondata sul principio della separazione del politico dal religioso. La sua argomentazione sembra dunque essere più secolare (non-teologica) di quella di Veiteberg. Ma è vero?

Nei due casi (i rifugiati e il boicottaggio) si tratta, a nostro avviso, del coinvolgimento degli ambiti religioso/teologico e non-religioso/laico/politico, cioè di diversi tipi di pensiero della secolarizzazione. Pur considerando che Veiteberg e Tybring-Gjedde, nel caso del boicottaggio, si collocano politicamente l’uno all’opposto estremo dell’altro, possiamo, tuttavia, sostenere che entrambi esprimono 1) due versioni differenti del pensiero della secolarizzazione, che 2) le due versioni hanno il loro fondamento in due generi di pensiero cristiano, 3) che la posizione del vescovo luterano Veiteberg risale al pensiero Medioevale di Gioacchino da Fiore (senza ritenere tuttavia che lei ne sia consapevole). Il paradosso risiede nel fatto che entrambi presentano due idee opposte della secolarizzazione: mentre Veiteberg rappresenta l’idea del coinvolgimento e della realizzazione degli ideali e motivi religiosi nel mondo profano, Tybring-Gjedde argomenta in favore della separazione dell’ambito religioso da quello secolare. La secolarizzazione in questo ultimo significato rispecchia l’idea più comune di essa, cioè l’idea del laicismo. Ad esempio, Emilio Gentile nel suo libro Le religioni della politica (2007) sostiene che “secolarizzazione” significa “l’affermazione dell’autonomia della dimensione politica dalle religioni istituzionali tradizionali e la separazione dello Stato dalla Chiesa” (210). Noi invece riteniamo che entrambe le suddette affermazioni esprimano un punto di vista coerente con la secolarizzazione. Dunque, qual’ è la causa della confusione? Ci sembra che la confusione attenga al modo in cui la secolarizzazione sia stata compresa e collegata al pensiero dualista o dicotomico nella storia occidentale. Secondo noi, le dichiarazioni del vescovo Veiteberg possono essere (almeno in parte) comprese sullo sfondo del confronto storico fra  questi due paradigmi: da un lato Agostino (354-430) che separa due tipi di tempo (il tempo del mondo e il tempo della salvezza) e due tipi di città (la città terrena e la città di Dio); dall’altro  Gioacchino da Fiore (1135-1202) che sfida questo dualismo fondando un altro paradigma dove il tempo del mondo, la storia, può anche essere il tempo della salvezza (Crocco 1986, Taubes 2007, 2019). Come hanno sottolineato molti studiosi (Grundmann 1927, Löwith 1949, Borghesi 2008, 2018, Scattola 2007, Svenungsson 2011), il pensare la storia come una storia di salvezza inizia con Gioacchino e si estende ai tempi moderni.

Per ridurre questa complessità, ci concentreremo sull’ opposizione fra il religioso e la secolarizzazione cristallizzando tre questioni: 1) La secolarizzazione è da intendersi come un lato della dicotomia tra la religione e il non-religioso, o come una dissoluzione di questa dicotomia? 2) Si possono trovare dei paradigmi cristiani in entrambi i casi? 3) Che “tipo” di cristianesimo è implicato nelle due alternative? Per indagare tutto ciò, cominciamo con l’indicare le due alternative storiche e filosofiche.

 

Le archái cristiane del pensiero della secolarizzazione.

1)Da un lato sarebbe giusto sostenere che il pensiero della “secolarizzazione” non può fare a meno di implicare una dicotomia o differenza con la religione cristiana (Borghesi 2018). In questo senso secolarizzazione significa paradossalmente due cose contrarie in quanto essa si riferisce: a) sia a un tipo di teologia (cristiana) che cerca di incorporare politica e religione (Costantino, Theodosius, Eusebio di Cesarea, Gelasio I), b) sia alla problematizzazione (anche cristiana) della stessa incorporazione o identificazione (Agostino). Entrambi i casi risalgono sia all’ articolazione che alla problematizzazione cristiana. Come scrive Massimo Borghesi “Una “critica della teologia politica” può infatti essere pensata, all’origine, solo a partire dall’orizzonte aperto dal cristianesimo” (2018, 10). Senso a) del primo paradigma cristiano di secolarizzazione. Mentre osserviamo la tensione tra regno di Dio e quello di Cesare tematizzato nel Vangelo di Matteo, vediamo più tardi l’incorporazione del cristianesimo nell’Impero Romano con Costantino e Theodosius e poi lo sviluppo di papa Gelasio I della cosiddetta diarchia gerarchica (Marramao, 1994, 21) dove il mondo sarebbe governato da due principi, l’auctoritas (autorità) del papa e la potestas (potere) del re (auctoritas sacrata pontificum, et regalis potestas (Gelasio I, 1974)). Nella respublica christiana entrambi governano sfere diverse, ma la potestas del re doveva essere incorporata e subordinata all’auctoritas del papa (In quibus tanto gravius est pondus sacerdotum, quanto etiam pro ipsis regibus hominum in divino reddituri sunt examine rationem). Secondo Merio Scattola, mentre la “teologia politica” di Costantino e il tardo antico sono collegate a Eusebio di Cesarea, il “paradigma teologico-politico fissato da Gelasio I fornì la base per l’intera discussione medievale” (Scattola, 2007, 49). La “Potestas regalis” è collegata da Gelasio al potere mondano dell’imperatore e si pone in opposizione all” auctoritas sacrata pontificum”, autorità dei pontefici e dei sacerdoti, ma allo stesso tempo, il potere secolare fa parte dello stesso insieme spirituale. Il mondano o secolare è quindi, concettualmente, un’entità spirituale/religiosa/teologica e in questo momento non ha indipendenza. Secondo Giacomo Marramao (cfr. Il cielo e la terra ,1994) è questo stesso pensiero binario che finisce per controllare anche la comprensione del concetto di “secolarizzazione”. Senso b) del primo paradigma cristiano di secolarizzazione. Il considerare il mondano o secolare (regalis potestas) come una parte inglobata nella teologia politica della respublica christiana non è l’unica posizione cristiana. Ritenere che le due sfere siano separate è invece un punto di vista necessario per criticare ogni teologia politica, ed è anche un pensiero cristiano. Questa sembra essere la posizione teologica di Agostino (Scattola 2007, Borghesi 2018), tuttavia, la separazione agostiniana della città di Dio e della città terrena è anche il nocciolo del problema del pensiero della secolarizzazione. Sebbene la forza di Agostino, come scrive il teologo svedese Jayne Svenungsson, consista nel fatto che: “it offers resistance to various kinds of political misuse of biblical claims”, essa tuttavia è indebolita per una tendenza “to distance itself from the concrete level of history” (Svenungsson, 2016, 51). È qui che entra in gioco la riflessione di  Gioacchino da Fiore come diverso paradigma del pensiero della secolarizzazione.

2)D’altra parte, sempre nell’ambito cristiano, il termine “secolarizzazione” si riferisce alla dissoluzione delle dicotomie, anzitutto quella tra la politica e la religione/teologia ma anche quella tra il temporale (saeculum) e lo spirituale (innenweltlich-ausserweltlich) (Taylor 2007, 194). Se ora mettiamo da parte  il fatto che ogni “politica teologica” (per esempio quella di Costantino, Theodosius, Eusebio di Cesarea, e Gelasio I nel primo paradigma) potrebbe essere chiamata  secolarizzazione[1], ci sembra  possibile identificare questa dissoluzione ad almeno due livelli: a) come mostrato da Strätz & Zabel (2004) la nozione stessa di “secolarizzazione”  si trasforma da concetto dicotomico, astratto del diritto canonico, in un concetto storico e immanente; b) inoltre la secolarizzazione porta con sé l’ “immanentizzazione” del pensiero teologico dell’ éschaton “eleminando il piano trascendente e risucchiando il divino stesso nel foro dell’interiorità” (Marramao 1994, p. 132). Come mostrato da Weber (1995) l’etica protestante con il suo “nouveau individualisme” (Dumont 1983) e con l’ascetismo del mondo interiore (innenweltliche Askese) ha distrutto tutti i dualismi dell’epoca precedente. Dunque, in questo contesto “secolarizzazione” viene a significare non tanto il “disincantamento del mondo” quanto piuttosto la distruzione del dualismo e la realizzazione della religione nel mondo e nella storia. Soprattutto essa sarebbe causata dal protestantesimo, ma come numerosi studiosi hanno sostenuto questa dissoluzione o “immanentizzazione” si connette al pensiero di Gioacchino da Fiore (Crocco 1986, Taubes 2007, Borghesi 2008, Henkel 2010, Voegelin 1987, Alunni 2018) molti secoli prima della Riforma.

Ci sembra che queste due tradizioni opposte, – a cui Agostino e Gioacchino appartengono -, ovviamente con versioni diverse e diverse sfumature, entrambe collegate al dualismo, si manifestino nel pensiero contemporaneo. Ma si manifestano in maniera confusa per numerose ragioni. In primo luogo, perché queste tradizioni sono contrapposte l’una all’altra. Il termine “secolarizzazione” ha dunque un senso polivalente, e quindi non è chiaro quale sia il “vero” pensiero di chi sostiene la secolarizzazione. In secondo luogo, perché coloro che credono di aver eleminato la religione dal loro pensiero hanno in realtà “dimenticato” le radici teologiche del loro pensiero. Inoltre, in terzo luogo, perché il fondamento storico non è solamente “dimenticato”, ma neanche sempre dato e situabile in una cronologia. Se invece queste tradizioni sono descrivibili come forze operanti nella storia piuttosto che dati situabili in una cronologia storica, il pensiero della secolarizzazione sarà l’oggetto di una “filosofia archeologica”.

 

Modernità, temporalità e l’eredità diffusa del pensiero nel contesto nordico.

Come vedremo, la tematica della secolarizzazione è sempre stata una tematica del tempo. Però nella modernità il nesso tra secolarizzazione e temporalità è compreso anche in un senso ideologico: l’epoca del “mondo secolarizzato” (presente) è intesa come progresso rispetto all’epoca del “mondo religioso” (passato). Inoltre, l’epoca del mondo secolarizzato s’intende anche come il tempo del progresso (Koselleck & Meier 2004). Il filosofo e storico delle idee norvegese Espen Schaaning ha fatto nel suo libro Modernitetens oppløsning (1992) (La dissoluzione della modernità) una presentazione notevole di quello che chiama “il progetto moderno”. Per identificarlo Schaaning delinea alcune aree tematiche che caratterizzano la mentalità moderna. Uno dei temi che mette in evidenza è la “fede nel progresso”. La credenza in un progresso della storia (utvikling i historien):

Questo è forse l’aspetto più importante della modernità ed è una idea che inizialmente prende le mosse nel romanticismo. Si può sostenere che la nozione cristiana della storia è orientata al futuro insieme alla attesa della fine dei tempi (escatologia) e il sogno del regno millenario (chiliasma). Così, ad esempio, gia Agostino pensava alla storia come a un campo di battaglia dove il bene combatteva il male, lo stato di Dio contro lo stato terreno. Ma per Agostino, la storia non ha alcuno sviluppo intrinseco, né alcuno sviluppo intrinseco della ragione, come appare sporadicamente in Kant e come appare quale idea principale in Herder e Hegel. È quindi solo con il romanticismo che l’idea dell’autorealizzazione della ragione nella storia si afferma[2](1992, 13).

La prima cosa che ricaviamo da Schaaning è che la modernità è collegata a un pensiero, credenza o percezione del tempo e della storia. La modernità dice qualcosa su un tempo o un’epoca a cui noi apparteniamo ancora.  O piuttosto “la modernità” è una riflessione sull’età in cui viviamo. E tuttavia questo pensiero deve essere sfidato, perché, come afferma Bruno Latour, non siamo mai stati moderni nel modo in cui crediamo di esserlo (1997). Ed è proprio questo il punto rilevante, “il moderno” si riferisce non solo a un’epoca, ma a un pensiero sul tempo in cui si vive. È cruciale in questa autocomprensione, di cui il concetto di “secolarizzazione” fa parte, l’idea che il moderno/la secolarizzazione sia un progresso (che implica anche una rottura) rispetto all’antico/religioso. È questa comprensione del tempo che ora proveremo a problematizzare.

Un secondo punto collegato al precedente, che emerge in Schaaning, riguarda ciò che dice di Agostino e la comprensione romantica della storia. Un punto questo da analizzare criticamente: sebbene l’idea dell’autorealizzazione della ragione nella storia permei il romanticismo, non è la prima volta che si rompe con la comprensione del tempo e della storia di Agostino. Infatti, già Gioacchino da Fiore aprì la strada al pensiero romantico centinaia di anni prima.

Occorre comunque aggiungere che non soltanto Gioacchino da Fiore è assente nella riflessione norvegese sulla modernità e la secolarizzazione. Quando si leggono i principali lavori norvegesi che trattano questi temi (Bangstad, Leirvik e Plesner 2009, Furseth 2015), emerge chiaramente che nessuno di essi si referisce al dibattito dell’origine filosofico-teologica della secolarizzazione che troviamo in centrali autori italiani (Marramao 1994, 2005, Vattimo 2002, Agamben 2008). I ricercatori norvegesi della secolarizzazione, la maggior parte dei quali sono sia teologi sia sociologi della religione (Furseth, Repstad, Henriksen, Leirvik), si riferiscono per lo più o a pensatori che discutono problemi di princìpi (Rawls, Habermas), o a sociologi della religione (Dobbelaere, Casanova) che trattano la secolarizzazione essenzialmente come fenomeno empirico. Non è chiaro perchè, ma la prospettiva filosofico-teologica e storico-concettuale sembra essere assente. Nessuno di essi tratta dunque la questione del pensiero della secolarizzazione. Nondimeno essa è rilevante nel contesto norvegese come mostra il caso di Veiteberg. Come scrive Gianni Vattimo, ignorare questa eredità concettuale significa ignorare il circolo ermeneutico necessario per comprendere che la modernità è “una “deriva” secolarizzante dell’eredità ebraico-cristiana” (Vattimo 2002, 76). Ma oltre alla prospettiva di Max Weber, che cosa significa esattamente una “deriva” secolarizzante dell’eredità ebraico-cristiana? La questione è centrale e domanda di essere trattata.

 

Che cosa significa “secolarizzazione”? Prospettive storico-concettuali.

Il concetto di secolarizzazione può essere compreso in diversi modi e da punti di vista accademici differenti[3]. La secolarizzazione può essere intesa come un processo storico, uno stato della società, come un ideale etico e politico, o essere collegata a una visione della vita (come una Weltanschauung). Possiamo usarlo per descrivere una società o delle persone, o per esprimere come pensiamo che la società dovrebbe essere. Come sottolinea Giacomo Marramao, la secolarizzazione può essere descritta come una storia del declino o come una storia del progresso: “la tesi della secolarizzazione può servire altrettanto bene…a formulare un giudizio ottimistico come un giudizio pessimistico sul presente” (2005, 29). Allo stesso tempo, il concetto di secolarizzazione si sovrappone in parte a concetti adiacenti come «secolarismo», «secolarità» e «laicità», e in parte deve essere distinto da questi. In tutti questi aspetti, tuttavia, si tratta della domanda su che cosa è il pensiero della secolarizzazione e su che cosa la definisce in rapporto con quello che possiamo chiamare “il religioso”, o (il più delle volte) nel tracciare una linea di contrasto nei confronti del “religioso”.

Ma se “il secolare” deve essere collegato al “religioso” e “il religioso” a sua volta deve essere collegato al “cristiano” o alla “teologia cristiana”, dobbiamo anche esaminare il significato di questi termini. E qui siamo al centro del tema dell’articolo: se è vero che il “pensiero della secolarizzazione” è collegato al “pensiero cristiano”, allora è bene sottolineare che il “pensiero cristiano” a sua volta distingue tradizioni diverse che in parte si contraddicono.

Se guardiamo un po’più in generale alla questione, cercando una relazione tra secolarizzazione e teologia cristiana, dobbiamo ricordare ciò che gli storici dei concetti Hans Wolfgang Strätz e Hermann Zabel hanno dimostrato. Vale a dire che i concetti che in Occidente usiamo per separare il religioso dal non religioso, hanno origine dalla teologia cristiana sviluppata nella tarda antichità e nel Medioevo (Strätz & Zabel 2004, Larsen 2007). La distinzione tra religioso e non religioso appartiene a una serie di contraddizioni: regolare-secolare, celeste-terreno, contemplativo-attivo, spirituale-mondano (Marramao 1994). Koselleck scrive che il concetto di secolarizzazione trae il suo significato concreto dall’opposizione spirituale / secolare (Koselleck, 2018, 182). Il concetto di secolare viene quindi inglobato in uno schema di contraddizioni, venendo associato a un lato di queste contraddizioni: il mondano, il terreno e il mutevole.

In primo luogo, questo è uno schema teologico. Mentre il termine “secolare” ha un significato intuitivo (e ideologico?) come qualcosa che è l’opposto della religione, il significato storico concettuale è piuttosto religioso e teologico. In secondo luogo, il concetto è incorporato in un quadro interpretativo gerarchico che dovrebbe regolare il rapporto tra religione e politica in un mondo cristiano (Il republica cristiana). Per comprenderlo, dobbiamo dire brevemente qualcosa sulla relazione tra potere spirituale e secolare nel pensiero antico e medievale.

Anche se si dice che il termine “secolarizzazione” appaia per la prima volta in connessione con i negoziati di pace a Westfalia nel 1648, il termine (secularis) è preso dal diritto canonico cattolico. Esprime due coppie opposte: weltlich – geistlich e weltgeistlich – ordensgeistlich (Strätz & Zabel 2004). Un secularis è in altre parole colui che vive una vita nel mondo e più specificamente caratterizza un sacerdote esente da una regola monastica. Insomma, un prete che non è un monaco. In altre parole, non solo il rapporto istituzionale tra il potere religioso e quello secolare è regolato dalla teologia. Il termine stesso ha un’origine canonica e teologica.

Un filosofo che ha avuto molto da dire per una comprensione teorica della secolarizzazione negli ultimi quindici anni, anche in Norvegia, è Charles Taylor (Taylor 2007, Bangstad, Leirvik e Plesner 2009, Henriksen & Kristoffersen 2010). Taylor ci fornisce un’analisi critico-storica interessante di ciò che egli chiama “narrativa di sottrazione” (subtraction story). La “narrativa di sottrazione” è una narrativa ideologica derivata dell’Illuminismo che, in breve, presenta la secolarizzazione come una sorta di realtà che viene scoperta quando la religione viene rimossa, indebolita o si sbriciola. Secondo questa narrativa i lumi e le nuove scienze hanno mostrato non solamente che la visione religiosa e teologica del mondo era una falsa costruzione, ma anche che la realtà secolare al di là di questa visione del mondo non è costruita. Ossia il mondo secolarizzato non è costruito ma scoperto. Ma come sottolinea il teologo norvegese Ragnar Misje Bergem nel suo libro Politisk teologi (Teologia politica) (2019), anche “il secolare” è costruito.

Quando si leggono i lavori degli studiosi della tradizione storico-concettuale in generale, e le loro analisi del concetto di “secolarizzazione” in particolare, si apprende tantissimo, benché non manchino debolezze e problemi. Infatti, la “storia dei concetti” tratta per lo più di concetti che possiamo identificare e che vengono analizzati da una “scienza” che desume i suoi fatti dal racconto storico di una storia di cose avvenute; Tuttavia, manca in tutto questo un rendiconto dei livelli cosiddetti “archeologici” che, secondo noi, è il proprio della storia del pensiero (Agamben 2004, XIX). Tuttavia, non siamo in completo accordo con Agamben quando scrive, a proposito del dibattito tedesco (tra Karl Löwith, Carl Schmitt, Hans Blumenberg et alii) sul concetto di secolarizzazione, che “nessuno dei partecipanti sembrava rendersi conto del fatto che “secolarizzazione” non era un concetto[…]ma un operatore strategico, che segnava i concetti politici per rimandarli alla loro origine teologica” (Agamben 2008, 78). Qui sia Agamben che la tradizione della “storia dei concetti” danno l’impressione che la storia dei concetti sia omogenea, e che si tratti di un trasferimento diacronico. Mentre la cosa interessante, è che i vocaboli di “secolarizzazione”, “secolarismo”, “secolarità” contengono una polisemia che proviene da diversi fonti, che si riferiscono a molti paradigmi cristiani talvolta contradittori che esistono sincronicamente. Si tratta quindi di identificare un paradigma agostiniano e un paradigma gioachimita e, per far questo, l’“archeologia filosofica” potrebbe fornirci un metodo d’indagine.

 

L’archeologia filosofica della secolarizzazione e la nozione di “paradigma”.

Cercheremo ora di tematizzare i diversi modi in cui possiamo pensare la secolarizzazione, mediante la concezione dell’”archeologia filosofica” e la nozione di “paradigma” del pensiero di Agamben. O meglio, vedremo come “archeologia filosofica” e “paradigma” ci aiuteranno a tematizzare i diversi modi in cui di già pensiamo la secolarizzazione, in quanto, come precedentemente notato, ne esistono piu di uno.

Iniziamo preliminarmente col chiarire cosa si intenda con “filosofia archeologica”. Il filosofo Angelo Bonfanti scrive nel libro Le forme dell’analogia. Studi sulla filosofia di Enzo Melandri che “il termine archeologia ha assunto un significato specifico nel lessico filosofico contemporaneo” (Bonfanti, 2016, 181). Nel contesto nordico questo proposito appare magari un po’ strano, ma ovviamente non nel contesto italiano e francese. Per esempio, possiamo leggere nell’Enciclopedia filosofica di Bompiani due articoli, l’uno che tratta di “filosofia della archeologia” e l’altro de “l’archeologia” (filosofica). Nell’ultimo articolo si può leggere questa descrizione di Andrea Cavazzi. L’archeologia filosofica:

“dovrà ripercorrere a ritroso il processo conflittuale e aleatorio tramite cui la razionalità si è costituita rimovendo il proprio altro; e giungere così a una scena originaria antecedente la rimozione, in cui ragione e non-ragione sono ancora indistinte e tutti gli esiti sono equiposibili” (Cavazzi 2010).

Pensiamo che a proposito della “secolarizzazione”, il metodo di indagine proprio della archeologia filosofica (Bonfanti, 2016, 198) qui descritto sia di particolare pertinenza, poiché, come Taylor ha notato, la secolarizzazione da un punto di visto “razionalista” sembra essere la realità antecedente la religione (“Subtraction story”) (2007). In altre parole, secondo la “narrativa di sottrazione” la secolarizzazione si colloca dalla parte della ragione, la religione invece da quella della non-ragione. E dove la secolarizzazione razionalista si costituisce a traverso una rimozione della religione. Il metodo di indagine della archeologia filosofica permette, invece, di mostrare la “scena originaria antecedente la rimozione” in cui la secolarizzazione e la religione sono ancora indistinte. Tuttavia, nel nostro caso, le cose si complicano ancora più perchè non c’è una “scena originaria” unica nella storia del pensiero della secolarizzazione. Confrontando Agostino e Gioacchino, vediamo che essi rappresentano diversi e, in parte, opposti modi teologici di pensare la secolarizzazione, politicamente e storicamente: Agostino in quanto critico della teologia politica costantiniana (Borghesi 2018) basata sul dualismo, e Gioacchino come critico del dualismo storico agostiniano (Crocco 1986, Taubes 2007, 2019). Ed entrambi questi modi teologici di pensare la secolarizzazione si trovano oggi in versioni non teologiche.

È in Signatura rerum. Sul metodo (2008) che Agamben sviluppa, con riferimento a Enzo Melandri, quella che lui chiama “archeologia filosofica”, che può essere intesa come una sorta di metafora di un modo specifico di fare filosofia. Agamben trova il termine in Kant e in Foucault e lo descrive come una “rovinologia”. Allo stesso modo in cui l’archeologo ha solo rovine come punto di partenza per immaginare com’era costruito una volta un edificio, il filosofo costruisce il proprio pensiero anche sulle rovine di ciò che altri hanno detto, pensato e scritto prima : “L’archeologia è, in questo senso, una scienza delle rovine, una” rovinologia ” il cui l’oggetto, pur senza costituire un principio trascendentale in senso proprio, non può mai veramente darsi come un tutto empiricamente presente” (Agamben, 2008, 83).

L'”archeologia filosofica” è ulteriormente collegata a ciò che Agamben chiama “paradigmi”. Questi sono un altro modo di descrivere l’archeologico. Proprio come la rovina è una metafora per la ragione antecedente su cui costruiamo il nostro pensiero, così il nostro pensiero è costantemente modellato da esempi o paradigmi. Quando pensiamo, siamo costantemente accompagnati da esempi, che a loro volta guidano il nostro pensiero, dandogli la direzione. Gli esempi sono qualcosa che ripetiamo e che ci governa. Inoltre, come evidenziato da Agamben (2008), Bonfanti (2016) e Melandri l’esempio gioca un ruolo centrale nell’archeologia filosofica: “la regressione “trascendentale” [fenomenologica] dipende […] dall’esemplarità del dato empirico, non viceversa” (Melandri in Bonfanti, 195).

Un esempio centrale che ha plasmato il nostro modo di pensare il “secolare” è il dualismo di Agostino tra il tempo celeste e quello terreno (saeculum). Considerando che il laicismo comporterà principalmente la separazione di Chiesa e Stato in due sfere diverse, lo si può intendere come una sorta di ”secolarizzazione” del dualismo teologico agostiniano tra il terreno e il celeste. Mentre l’identità tra religione e politica ha assunto storicamente due forme nel mondo cristiano, “quella teocratica, come nella Unam Sanctam di Bonifacio VIII, e quella molto più diffusa, che ruota intorno alla figura del Sacrum imperium” (Borghesi 2018, 12): tanto Agostino quanto il laicismo si fondano su una separazione tra le due sfere.

Si tratta, quindi, principalmente, di due paradigmi (Agostino e Gioacchino) che, benchè a volte contraddittori, possiamo chiamare entrambi pensieri della secolarizzazione.  Qui ci sembra pertinente una precisazione di Enzo Melandri nella sua recensione a Le parole e le cose (Les mots et les choses) di Michel Foucault (Bonfanti 2016). Stando a Melandri, troviamo nel libro di Foucault un tipo di “storicismo semiotico, secondo il quale i metodi di utilizzo dei segni nella storia sono diacronicamente diversi, e pertanto esistono diverse età semiologiche e: “… tali restano anche sincronicamente, poiché le funzioni più arcaiche si conservano anche nei nuovi assetti” (Melandri in Bonfanti, 194). Tutto ciò è di estremo rilievo, perché ritengiamo che sia utile trovare un metodo di “archeologia filosofica” non tanto che conduca verso una storia caratterizzata da rotture epistemologiche (nel senso di Bachelard e Canguilhem) o da periodizzazioni (come, ad esempio, l’episteme di Foucault), quanto che sia in grado di render conto di due aspetti: la permanenza e la coesistenza di diverse modalità allo stesso tempo. Ad esempio, nel dibattito tra Veiteberg e Tybring-Gjedde, le rispettive posizioni si fondono non solo su paradigmi diversi, ma anche su piani diversi.

 

Dualismo, separazione e secolarizzazione.

Abbiamo dall’inizio articolato tre questioni: 1) La secolarizzazione è da intendersi come un lato della dicotomia tra la religione e il non-religioso, o come una dissoluzione di questa dicotomia? 2) Si può trovare dei paradigmi cristiani in entrambi i casi? 3) Che “tipo” di cristianesimo è implicato nelle due alternative?

Per rispondere a queste questioni ci basiamo su una tradizione storico-filosofica che cerca di identificare una continuità tra il pensiero religioso e il non-religioso. Gli storici e i filosofi nella tradizione della Begriffsgeschichte (Koselleck, Meier, Strätz e Zabel) hanno mostrato il trasferimento concettuale dal pensiero religioso al pensiero secolare. Marramao cerca per esempio nel suo esame di genealogia della secolarizzazione “le radici messianiche del “futurismo”” (Marramao, 1994, 105). Altri studiosi si concentrano sulla “immanentizzazione” del pensiero cristiano e teologico e interpretano ad esempio Gioacchino da Fiore come la prima tappa della secolarizzazione intesa come un’“immanentizzazione del’éschaton cristiano sul piano storico” (Borghesi 2008, 67) (Alunni 2018). In entrambi i casi secolarizzazione significa “superamento della differenza tra divino e mondano, civitas Dei e civitas mundi” (Borghesi 2008, 67). In altre parole, secondo questa tradizione la risposta alla prima questione sarebbe che con “secolarizzazione” si deve intendere la dissoluzione di ogni dicotomia. E il superamento gioachimita del pensiero agostiniano è al centro di questa interpretazione. L’idea che questo superamento di Agostino, e il suo significato per la secolarizzazione (in senso di “storia come escatologia”), risalga a Gioacchino è dimostrata da numerosi altri studiosi. Fra i più importanti sono Karl Löwith con il suo Meaning in history del 1949, e Jacob Taubes con Abendländische Eschatologie (Escatologia occidentale, 2019) del 1947. I loro apporti sono ancora indicati come opere fondamentali per analizzare il legame tra escatologia e modernità (Alunni 2018, 36). Secondo la tradizione che prende Gioacchino come punto di partenza, secolarizzazione significa “superamento della differenza tra divino e mondano”.

Dunque, giacché possiamo chiamare sia la critica (Agostino) di ogni tentativo di superare la distinzione fra religione e politica (non soltanto la teocrazia ma perfino ogni tentativo di superare la differenza tra divino e mondano) che il superamento della differenza tra divino e mondano (Gioacchino) come pensieri della “secolarizzazione”, ci sembra che il concetto stesso sia polisemico. In altre parole, da un lato la secolarizzazione significa superamento della differenza tra cielo e terra, dall’altro secolarizzazione implica la separazione tra cielo e terra. Inoltre, Agostino presenta qui il paradigma del pensiero della separazione. Come scrive Borghesi, la teologia di Agostino “è una teologia della politica, non una teologia politica” (Borghesi 2018, 13). Il critico della teologica politica è lui stessa teologico. Scopriamo così due paradossi: 1) che secolarizzazione potrebbe significare il superamento delle dicotomie (unione o coinvolgimento tra le opposizioni) ma anche la critica dello stesso superamento. 2) che il pensiero critico della teologia politica è anch’esso teologico. Questi due paradossi risalgono a un paradosso presente nella stessa tradizione cristiana: la cosmologia cristiana può essere dualista, nel senso che conserva una trascendenza, o “immanentista” in senso storico.

All’interno del paradigma dualista, la secolarizzazione è pensata come una separazione principale tra la religione o “il trascendente” e la sfera politica. Questo è ciò a cui pensiamo quando parliamo di separare chiesa e stato e ciò che spesso chiamiamo principio di laicità. Il dualismo teologico di Agostino e “il pensiero della separazione” del laicismo sembrano dunque esprimere una correlazione se non un’identità. Questo dualismo è in parte ereditato da un dualismo agostiniano, ma risale “archeologico- filosoficamente” parlando forse più indietro se indaghiamo l’etimologia del termine “religione”.

Infatti, per comprendere la “secolarizzazione” occorre indagare il collegamento con la sua nozione contraria, “religione”. Seguendo i lavori filologici di Émile Benveniste (1969) e i lavori filosofici di Giorgio Agamben (2005) il termine religio non deriverebbe da religare (ciò che lega e unisce l’umano e il divino), ma come già indicato da Cicerone nel De natura deorum da relegere. Quest’ ultimo concetto indica l’atteggiamento di cura e di diligenza che si riferisce al divino, “ri -leggere” il culto degli dei per rispettare la distinzione tra il sacro e il profano. Religio non è dunque ciò che unisce umano e divino, ma ciò che li separa (Agamben, 2005,  85). La religione nel senso di relegere è quindi dualistica in quanto la separazione del divino e l’umano in due sfere si fonda su un dualismo cosmologico. Secondo Agamben non solamente “si può definire religione ciò che sottrae cose, luoghi, animali o persone all’uso comune e le trasferisce in una sfera separata” ma anche che “ogni separazione contiene in sé un nucleo genuinamente religioso” (Ibid, 84). Inteso in questo senso, come separazione fondamentale, ci sembra che religione sia un fenomeno che permea anche il pensiero non religioso, perfino il pensiero laico. In altre parole, il laicismo come separazione tra stato e chiesa, è archeologicamente collegata alla separazione della religione arcaica. Perciò, Agamben conclude che “La secolarizzazione è una forma di rimozione, che lascia intatte le forze [di separazione della religione]” (Agamben 2005, 88). Queste forze sono l’oggetto della “filosofia archeologica”. La questione è duplice: se anche il pensiero di Agostino, sia legato alla stessa idea arcaica di separazione, e quindi se la secolarizzazione sia, come in Agostino, legata a questa stessa idea.

 

Il dualismo di Agostino: due città e due temporalità.

Forse il contributo più cruciale alla teologia della politica nel pensiero cristiano antico è l’opera di Agostino De Civitate Dei[4]. Agostino è uno dei più considerevoli pensatori cristiani nella storia e fra i suoi scritti il De Civitate Dei è uno dei suoi capolavori. Non esamineremo qui a fondo questo libro. L’obiettivo è rintracciare una forma di dualismo che ha governato e governa ancora gran parte del pensiero politico occidentale. Al centro del pensiero di Agostino vi è l’opposizione tra il terreno e il celeste presentato nella sezione 28 del libro 14. Là egli discute due tipi ideali di città, una terrena e una celeste. Questi sono governati da diversi tipi di amore:

Due amori quindi hanno costruito due città: l’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste. In ultima analisi, quella trova la gloria in se stessa, questa nel Signore” (Agostino, 2019, XIV, 28, 691).

Le due città, esemplificate da Gerusalemme e Babilonia, sono interconnesse e condividono il beneficio della pace che può essere stabilita nel “temporale” (in hoc saeculo) vale a dire “nel tempo prima della fine” (ante finem saeculi). Secondo Jacob Taubes il dualismo di Agostino non è quello manicheo; quindi, evita l’espressione civitas diaboli per caratterizzare la città terrena (Taubes 2019, 126). Tuttavia, questi due regni possono essere descritti come una contraddizione. Come scrive lo stesso Taubes in Escatologia occidentale: “Per Agostino e per la filosofia della storia medievale la contrapposizione tra regno divino e regno terreno diventa il principio stesso della storia” (Ibid). Antonio Crocco da parte sua riassume il dualismo di Agostino scrivendo che il filosofo di Ippona individua nella struttura della storia due forze interagenti o “due entità insieme “storiche” e ideali o “mistiche”, costituenti due forme fondamentale dell’essere nel mondo, due opposti modi di esistenza, due princìpi antagonistici: la civitas Dei e la civitas terrena” (Crocco 1986, 145).

Si tratta dunque nel dualismo agostiniano di un dualismo doppio, due tipi di regno e due tipi di temporalità. Per quanta riguarda l’ultimo, Agostino divide la storia in sei grandi epoche di cui la sesta epoca è l’avvento di Cristo. Tutto lo svolgimento della storia è fissato e circoscritto in queste “sei età”. Agostino include anche una settima epoca, ma la pone fuori dalla storia del mondo, nel regno “cuius nullus est finis”, orizzonte dell’eternità (Ibid, 146). Come osservato da Marramao (1994) e Löwith (1949), Agostino è spesso detto essere colui che rompe con il tempo circolare, concetto dell’antichità, e introduce l’interpretazione lineare del tempo. Ma non è questo per noi il punto principale. Lo scopo della nostra analisi è il rapporto tra il religioso e il sacro da un lato e il terreno e il secolare dall’altro. Perché, oltre a una comprensione dualistica dei diversi domini di potere, Agostino ha un’altra distinzione corrispondente tra tempi secolari e religiosi. Il terreno (saeculum) non è solo un “luogo” o una sfera, ma ha il suo tempo, che è il tempo della storia del mondo. Questo tempo è, sì, stato creato da Dio, ma è prima di tutto a contrasto con l’aldilà; infatti, il tempo eterno non può mai evolversi come il tempo del mondo.

Come scrive Karl Löwith:

The city of God is not an ideal which could become real in history, like the third age of Joachim, and the church in its earthly existence is only a representative signification of the true, transhistorical city. For Augustine the historical task of the church is not to develop the Christian truth through successive stages but simply to spread it, for the truth as such is established […] That everything in this saeculum is subject to change goes for Augustine without saying; for this very reason profane history has no immediate relevance for faith in things everlasting…

Augustin’s faith does not need any historical elaboration because the historical process as such can never establish and absorb the central mystery of the Incarnation. The faith in it cuts across all linear developments… What really matters in history, according to Augustine, is not the transitory greatness of empires, but salvation or damnation in a world to come. His fixed viewpoint for the understanding of present and past events is the final consummation in the future: last judgement and resurrection” (1949, 166-168).

Riconosciamo che Agostino e la sua comprensione della storia è complicata. Da un lato possiamo intendere Agostino come un pensatore dualista, come fa Löwith, ove lo sviluppo della città terrena e le sue virtù nel tempo storico (saeculum) è separata dalla città di Dio (The city of God is not an ideal which could become real in history). Dall’altro è possibile comprendere Agostino e il suo concetto di saeculum come dialettico: “Il saeculum- il tempo storico- si è così rivelato un concetto polivalente e in sé dialettico” (Lettieri 1988, 194). Secondo questa lettura il tempo storico è il momento in cui confrontare e scegliere tra diversi valori. In questo senso la storia può essere decisiva anche nel pensiero di Agostino[5]. Tuttavia, come scrive Crocco, Agostino pone la settima epoca (l’orizzonte dell’eternità) fuori della storia (Crocco 1986, 146). Il tempo terreno e il tempo in cui la salvezza sarà accessibile (in verità unicamente per alcuni) sono separati. Questo non gli fa pensare che il “saeculum” contenga alcun potenziale spirituale.

Come discuteremo nella prossima sezione, l’aspetto radicale di Gioacchino da Fiore consiste essenzialmente nella rottura con la comprensione storica di Agostino. Come abbiamo accennato in precedenza, ogni teologia cristiana è sempre stata collegata col dualismo. Abbiamo già visto che Gelasio afferma che il potere della Chiesa era “auctoritas” e il potere dell’imperatore “potestas”, rifacendosi in questo al diritto romano, dove l’”auctoritas” era il potere legislativo e la “potestas” il potere esecutivo. Essendo nel diritto romano, l’”auctoritas” superiore alla “potestas”, ne conseguì una relazione gerarchica fra il potere della chiesa e il potere dell’imperatore, per cui il potere secolare è incorporato nel potere spirituale. Allora non si tratta qui tanto di un dualismo di separazione ontologica quanto piuttosto di un coinvolgimento di due parti dello stesso ordine. Dunque, ci sembra che questa incorporazione del dominio terreno nel dominio spirituale sia una rottura con il dualismo di Agostino piuttosto che una continuazione di essa.

Ma perché il De civitate Dei è stato letto come fondamento per la teologia politica medioevale? Perché questa dottrina, come ha mostrato Etienne Gilson ha attraversato tali numerose metamorfosi? Secondo Gilson la fonte della confusione consiste nell’ identificazione della città di Dio con la chiesa (on a réduit la Cité de Dieu à l’Église) e la città terrena con lo stato o l’imperatore. Mentre secondo lo stesso Agostino le due città erano mistiche e non si materializzeranno mai nel mondo. Ossia le due città non corrispondono a istituzioni terrene quali la chiesa o l’imperatore (La Cité de Dieu et la Cité terrestre sont deux cités mystiques) (Gilson 2005, 79-80) (Borghesi 2018). Agostino stesso scrive che: “In senso mistico le chiamiamo anche due città, cioè due società umane, delle quali l’una è predestinata a regnare in eterno con Dio, l’altra a subire il supplizio eterno con il diavolo” (Agostino, 2019, XV, 1., 693). Non abbiamo il tempo di discutere più a fondo questo punto, ma come scrive Matthias Riedl l’aspetto mistico è collegato ad una tradizione latina cristiana in cui il vocabolario politico si riferisce ad una sfera invisibile: “the political vocabulary of the Romans is applied to the invisible sphere” (Riedl 2011,15).

Eppure, con l’affermazione che c’è un rapporto “archeologico-filosofico” fra il secolarismo moderno e la teologia di Agostino non pretendiamo dire che si tratti di un ritorno alla teologia, nè pretendiamo di affermare una connessione fattuale (per esempio di un trasferimento concettuale dal campo teologico al campo profano come sostengono Zabel & Strätz (2004)). La differenza difficile, ma tuttavia notevole da capire, tra un’indagine storica e quella “archeologico- filosofica” è che in quest’ultima il passato non lo si intende in senso cronologico. Come accenna Agamben, l’“archeologia filosofica” è analoga all’analisi freudiana della coscienza. Quest’ultima “mostra che il processo secondario della coscienza è sempre in ritardo sul processo primario del desiderio e dell’inconscio” (Agamben 2008, 97). Il desiderio è primario, ma primario non significa primario nel senso cronologico perché la coscienza è modellata sul “desiderio indistruttibile” (Ibid.). L’immagine che il desiderio sia nel passato, la coscienza sia nel presente è falsa perché il “passato” è sempre presente. Il rapporto tra il laicismo e Agostino è dello stesso tipo. Non si tratta qui di affermare un trasferimento diretto e cosciente fra l’idea agostiniana della separazione tra le due città (città di Dio – città terreno) e l’idea moderna della separazione tra stato e chiesa. Il dualismo di Agostino costituisce piuttosto una “forza ancora operante”, come scrive Agamben. Ma l’origine di questa idea resta tuttavia per il pensiero moderno “dimenticata”.

Se Agamben è nel giusto quando sostiene che non solo “non c’è religione senza separazione” ma anche che “ogni separazione contiene in sé un nucleo genuinamente religioso” (Agamben, 2005, 84), allora ogni separazione tra religione e politica potrebbe essere paradossalmente un prodotto della religione, e così, in quanto pensiero archetipico della separazione, la religione sarebbe una forza operante nella storia. Non abbiamo qui tempo di indagare questo aspetto, però se Agamben avesse ragione il dualismo di Agostino risalirebbe dunque ad un arche più profondo. Ma è questo dualismo che Gioacchino fa vacillare.

 

Il pensiero di Gioacchino come alternativo per il pensiero della secolarizzazione.

Nel contesto italiano, Gioacchino da Fiore è molto conosciuto, mentre in quello norvegese e forse in quello nordico in generale, è meno noto. Come si sa, Gioacchino entrato nell’ordine cisterciense, dopo essere passato per diversi monasteri ed essere diventato abate del monastero di Corazzo, si ritirò in vita eremitica e costituì un nuovo ordine monastico, detto in seguito florense, approvato da Celestino III nel 1196. Già in vita ebbe la nomea di profeta, tanto che un’edizione cinquecentesca di una sua opera è indicato come “magnus propheta.[6] Tuttavia il IV concilio Lateranense (1215) ne condannò il De unitate seu essentia Trinitatis, e la sua dottrina sulla trinità (Ianniello 2017, 37). Una reputazione duplice, quindi la sua, come scrivono Marjorie Reeves e Warwick Gould (1987, 7), che continuò per tutto il Medioevo. Le opere principali sono Concordia Novi ac Veteris Testamenti ed Expositio in Apocalypsim. Numerosi suoi lavori sono tradotti in italiano[7] e c’è oggi una vasta letteratura internazionale su Gioacchino in numerose lingue per merito del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti (Ianniello 2017).

Attraverso la tradizione allegorica di esegesi biblica, Gioacchino reinterpreta il rapporto tra l’Antico e il Nuovo Testamento alla luce dell’ultimo libro della Bibbia: l’Apocalisse di Giovanni. La sua interpretazione, come afferma Antonio Crocco, è strettamente collegata alla sua teologia trinitaria. A differenza di Agostino che nel De Trinitate “subordina lo spirito al Padre e Figlio” (Svenungsson 2011, 5), Gioacchino sottolinea invece il ruolo dello Spirito. E mentre Agostino, nel De Trinitate, aveva proposto lo schema di vivere ante legem, sub lege, sub gratia, Gioacchino distingue tra due livelli di grazia, la grazia e una grazia maggiore che succede alla lettera neotestamentaria (In tribus denique statibus distinguitur tempus legis et gratiae: sub lege, sub gratia, sub amplior gratia (Gioacchino 1994,162-164)). Crocco scrive che, mentre la concezione della storia costituisce il nucleo centrale e la principale novità del messaggio di Gioacchino, per comprendere il rapporto tra il pensiero storico di Agostino e quello di Gioacchino occorrere capire che quest’ultimo:

ha le sue genesi e il suo presupposto nell’interpretazione allegorica e storico-tipologica della Scrittura, ma si fonda principalmente su un’originale e profonda riflessione teologica del mistero trinitario, assunto come archetipo trascendente del cosmo storico, in una visione che tende a sostituire, o per dir meglio ad assorbire, il tradizionale modello cristologico nella costruzione di una teologia della storia” (Crocco 1986, 147-148)

Gioacchino usa quindi la sua lettura della teologia trinitaria come una forma interpretativa per comprendere lo sviluppo della storia, il suo passato, presente e futuro. Gioacchino distingue tre età che corrispondono alla trinità. Il primo è il tempo della legge ed è durato da Adamo a Cristo. In questo periodo l’uomo vive secondo la carne. Il secondo è il tempo del Vangelo e della grazia in cui l’uomo vive secondo sia la carne che lo spirito. Il terzo e ultimo è il tempo della libertà in cui gli uomini devono vivere secondo lo spirito. Questa divisione del tempo corrisponde anche a quale “ordo” è prominente nelle diverse epoche: il tempo della legge è il tempo dei coniugi, il tempo del vangelo è il tempo dei sacerdoti e il terzo è il tempo dei monaci. Karl Löwith descrive Joachim come segue:

The Kingdom of the Spirit is the last revelation of God’s purpose on earth and in time […] The existing church, though founded on Christ, will have to yield to the coming church of the Spirit, when the history of salvation has reached its plenitude […] The real significance of the sacraments is not, as with Augustine, the signification of a transcendent reality but the indication of a potentiality which becomes realized within the framework of history.” (1949, 151)

Oltre a Karl Löwith, il filosofo della religione Jacob Taubes è stato uno dei primi a tematizzare il modo in cui il pensiero occidentale (secolare) è permeato dalla comprensione cristiana della storia e del pensiero della fine dei tempi. Mentre Agostino era importante perché abbandonava il pensiero ciclico dei “pagani” introducendo la visione lineare del tempo (Marramao 2005), l’abate Gioacchino da parte sua, troncava con il pensiero dualistico di Agostino di modo che la storia del mondo diventava una storia della salvezza (Löwith 1949). Ecco perché Gioacchino da Fiore gioca un ruolo importante nello sviluppo del pensiero storico, come affermato fra gli altri da Sara Anna Ianniello:

La nuova interpretazione della storia, supera il dualismo agostiniano che vedeva la città terrena eternamente contrapposta a quella celeste, per mostrare come attraverso la rivelazione della Trinità, la storia è divisa in due” (Ianniello 2017, 36).

Unendo Trinità e storia, Gioacchino attribuiva specifico rilievo al tempo proprio dello Spirito. Il nuovo modello storico ternario caratterizzato dal tempo imminente di una grazia maggiore supera il tradizionale schema binario di Agostino.Taubes arriva ad affermare che l’età della grazia evangelica si pone come un terzo tempo rispetto al tempo dell’Antico e del Nuovo Testamento:

Gioachino distrugge la rappresentazione duale della storia propria di Agostino, che caratterizza la metafisica medievale, e le contrappone l’ecclesia spiritualis come terzo elemento della religione del Nuovo e dell’Antico Testamento.” (Taubes 2019,128).

Interpretando la storia come un processo in tre fasi basato sul modello della Trinità (Sicut Deus Trinitas est, ita…sunt tria tempora, quae tres status mundi nominanda credimus (Gioacchino in Crocco 1986, 151), Gioacchino pone le basi per un diverso pensiero storico e teologico, sostituendo alla concezione cristocentrica la sua propria concezione trinocentrica. Per comprendere l’importanza di Gioacchino nello sviluppo del pensiero moderno della secolarizzazione, che Löwith, Taubes e altri indicano, dobbiamo comprendere che questa “età dello spirito” non è una età ultraterrena o celeste. È invece un’età futura e terrena caratterizzata da pace e felicità. Ed è su questo che si basa, in senso “filosofico-archeologico”, l’idea secolare di un progresso spirituale per tutto il genere umano nella storia.

La combinazione di entrambi i punti – la distruzione della dualità e l’idea che l’età dello spirito implica una progressione – pone le basi per quello che chiamerei un altro paradigma della secolarizzazione (si potrebbe forse dire con Agamben un’altra “forza” nella storia). Perché un altro paradigma? È altro rispetto sia a qualsiasi teocrazia medioevale (Costantiniano, Eusebio di Cesare, Gelasio I), sia alla critica agostiniana della teologia politica (Borghesi 2018). Mentre il paradigma agostiniano è una sorta di dualismo trascendente – distinguendo tra da un lato il terreno, il temporale (saeculum) e dall’altro il celeste, l’eterno – Gioacchino problematizza questo dualismo. Occorre essere prudenti nel caratterizzare il paradigma di Gioacchino come triadico e immanente rispetto a quello dualista di Agostino, ma è indubbio che il trascendente e l’immanente si incontrano in misura maggiore nel pensiero di Gioacchino. Anche Agostino dice che le due città (la città terrena e la città di Dio) si mescolano in questo mondo (permixtae sunt ambae civitates), ma non nello stesso senso di Gioacchino. Sebbene non abbiamo sufficiente spazio in questo articolo per trattare questa tema complicato, occorre qui almeno accennare alla differenza tra i loro pensieri.

Agostino e Gioacchino si accordano su alcune questioni. Per esempio, entrambi si allontanano dal pensiero escatologico cristiano secondo cui viviamo nella fine del tempo e della storia (Svenungsson 2016, 51-52). Ciò nonostante, c’è anche una differenza importante fra i due. In Gioacchino troviamo, al contrario di Agostino, un pensiero apocalittico. Gioacchino si distingue anche dall’escatologia apocalittica che mostra disprezzo per il mondo. Secondo Svenungsson: “Joachim also avoids the reverse temptation: a contempt for the world that is latent in eschatological apocalyptism’s project of redemption in a world to come” (Ibid., 37). Questo aspetto intrastorico lo collega alla tradizione del profetismo ebraico che presenta una teologia della storia “that locates the redemptive process in the present moment, rather than at the end of time” (Ibid., 36). Ci sembra che questo connetta Gioacchino alla tradizione weberiana di secolarizzazione poiché Weber accentua precisamente la presenza del profetismo ebraico nella storia della secolarizzazione (Weber 1995). Comunque, mentre il pensiero della secolarizzazione di Agostino resta caratterizzato da una separazione tra storia sacra e storia profana, Gioacchino cerca di fondare un pensiero teologico intrastorico in cui la separazione tra sacro e profano crolla. Ma in che modo “l’archeologia filosofica” è collegata alla concezione gioachimita della secolarizzazione?

 

Religione come “rovina” per il pensiero della secolarizzazione?

Come abbiamo visto precedentemente, Veiteberg riattiva un pensiero diverso da quello agostiniano, un pensiero che, secondo noi, risale a Gioacchino anche se non dipende da un riferimento diretto. In altre parole, non è rilevante qui se Veiteberg abbia mai letto Gioacchino. Il pensiero dell’abate è piuttosto una “rovina” per un tipo specifico di pensare. Che cosa significa “rovina”? Abbiamo visto che per spiegare la nozione di “archeologia filosofica” Agamben fa riferimento a Kant di cui sta utilizzando la metafora di “rovina” per caratterizzare una storia filosofica della filosofia: “ogni filosofo costruisce per così dire la sua opera sulle rovine (auf den Trümmern) di un’altra” (Kant in Agamben 2008, 83). Eppure, la metafora di “rovina” non appare unicamente in Kant. È anche utilizzata nel contesto della teologia luterana (confessione a cui appartiene Veiteberg). Per esempio, quando Schleiermacher nel Discorso sulla religione si riferisce alla “rovina della religione” (gern stände ich auf den Ruinen der Religion, die ich verehre) (Schleiermacher in Svenungsson 2011) sta usando, secondo noi, una metafora archeologica -“rovina”- per esprimere un pensiero della secolarizzazione (nel senso di una fede senza chiesa) che, come abbiamo visto, può essere, in ultima analisi, attribuito al pensiero di Gioacchino da Fiore. L’eredita gioachimita nello Schleiermacher è sottolineata da numerosi studiosi. Ad esempio, Henri de Lubac caratterizza Schleiermacher come un “iper-gioachimita”: ”notre pasteur hyper-joachimite pense donc voir que les temps sont mûrs” (de Lubac 2014, 330). Nell’ambito nordico Jayne Svenungsson, da parte sua, segue la stessa linea interpretatrice (2011, 2016), ma senza discuterne né l’aspetto archeologico- filosofico e nè la metafora di “rovina”.

“Rovina” ha qui, secondo noi, numerosi sensi. In primo luogo, la “rovina” serve come metafora per il pensiero filosofico (Kant) e teologico (Schleiermacher). La loro maniera di collegarsi al passato è più simile all’archeologia che alla storia. Inoltre, in secondo luogo, l’archeologia è un metodo d’indagine che cerca di regredire ad un’arché, che però “non va intesa in alcun modo come un dato situabile in una cronologia” (Agamben 2008, 110). “Rovina” significherebbe un fondamento, magari stabilito nel passato, la cui significanza è però nel presente. In terzo luogo, la metafora di “rovina” è collegata al tema della secolarizzazione, di cui Gioacchino sarà un pioniere, e a cui Schleiermacher appartiene: infatti entrambi parlano di una fede senza chiesa, della dissoluzione della differenza tra sacralità e umanità e dell’identità tra religione e storia. Così quando Schleiermacher (e Veiteberg?) basa la sua teologia sulla “rovina della religione”, come riferito più sopra, egli sta anche basandosi sulla “rovina del pensiero” di Gioacchino da Fiore in quanto questi fu il primo a parlare di una fede senza chiesa. Forse Schleiermacher non conosceva Gioacchino o non si riferiva esplicitamente a lui. Tuttavia, l’idea secolare di una religione senza chiesa (Schleiermacher) non sembra possibile all’interno del pensiero di Agostino.

Ciò nonostante, siamo consapevoli che il tema è controverso. Senza approfondire qui questa discussione vorremmo solo ricordare che negli anni ottanta vi è stato un acceso dibattito tra Henri de Lubac, Marjorie Reeves e Warwick Gould riguardante l’influenza reale di Gioacchino sul pensiero occidentale. Mentre Lubac nel suo libro monumentale La posterité spirituelle de Joachim de Flore sostenne che ci sono delle tracce di Gioacchino ovunque nella storia del pensiero, per Reeves e Gould è opportuno: “distinguere Gioacchino da Fiore dal gioachimismo” (Alluni 2018, 87) e che la presenza del numero o figura tre, spesso attribuito a Gioacchino, non è una sua esclusiva particolarità:

“We shall therefore argue that the threefold scheme of history or an expectation of a coming new age are not in themselves proofs of Joachimist influence. More rigorous criteria must be applied: either direct citations of Joachim’s works or the appearence of some distinctively Joachimist doctrine.” (Reeves e Warwick 1987, 3).

Come gli autori dimostrano nel loro Joachim of Fiore and the myth of the ternal evangel in the nineteenth century ci sono molte “parentele” false o quasi corrette tra i pensatori dell’ Ottocento e Gioacchino: “This common use of the pattern threes with never a hint of reference of the Abbot’s famous three status gives clear support to the view already put forward that “thinking in threes” is a universal human style” (Ibid, 59). Forse hanno ragione. Siamo d’accordo che sarebbe importante evitare le false “parentele”. Ed è forse vero che de Lubac e altri studiosi abbiano esagerato la portata dell’influenza di Gioacchino nel pensiero storico occidentale. Ed è indubbio che sia azzardato affermare che esiste una connessione diretta tra le affermazioni di Veiteberg e Gioacchino. Riteniamo inoltre che sarebbe difficile giudicare se, per esempio, l’interpretazione che propone Gianni Vattimo di Gioacchino (2002) sia valida perché Vattimo si basa su de Lubac.

Tuttavia, pensiamo che “l’archeologia filosofica” sarebbe in grado di dare un’altra prospettiva a tali dibattiti, perché non si limita a ricercare la dipendenza da un passato avvenuto o da un trasferimento diretto. In altre parole, c’è una differenza fra un’indagine storica, come fa Reeves e Warwick, e un’indagine archeologico- filosofica.

Ed è qui che possiamo essere in grado di vedere su quale “rovina” o su quale “paradigma” Veiteberg basa la sua teologia, poiché il vangelo non solo viene rivelato, ma viene reinterpretato e riconosciuto in modi nuovi dal presente, ed è condizionato dal fatto che la distinzione tra l’eternità e il temporale diventa meno netta. Il messaggio di Natale (il vangelo) riceve un nuovo significato (rifugiati oggi). Questa forma di ermeneutica è qualcosa che associamo all’ermeneutica teologica nel XIX secolo e oltre, ma già con Gioacchino se ne stavano gettando le basi. Dunque, si tratta di un rapporto tra secolarizzazione e un tipo di interpretazione moderna che sembra passare attraverso Gioacchino. Ma in qual modo l’interpretazione, che esprime Veiteberg quando associa il vangelo di Natale con i rifugiati di oggi, è collegata alla secolarizzazione ed a Gioacchino? Qual’è il fondamento archeologico che permette una tale interpretazione? Per rispondere a queste domande e trovare un legame fra di loro ci rivolgeremo agli scritti di Gianni Vattimo.

 

Archeologia dell’interpretazione e archeologia della secolarizzazione.

L’interpretazione gioachimita della secolarizzazione è spesso presente nel libro di Vattimo intitolato “Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso” (2002). Nel capitolo Gli insegnamenti di Gioacchino Vattimo scrive:

Interpretata alla luce degli insegnamenti di Gioacchino, la morte di Dio ucciso dai fedeli, e cioè la secolarizzazione su cui si è costruita la modernità, assume un significato che riprende, ma anche completa e trasforma profondamente, io credo, il senso in cui molta teologia cristiana di oggi ha parlato di secolarizzazione e persino di morte di Dio come eventi legati alla rinascita della religione. La secolarizzazione, quando non viene stigmatizzata solo come abbandono del sacro e peccaminosità diffusa, viene per lo più riscattata dalla teologia come radicale manifestarsi della differenza tra Dio e la realtà terrena” (2002, 40).

Secondo Vattimo, Gioacchino pone così le basi per un modo di pensare la secolarizzazione che non solo stigmatizza la nozione di “secolarizzazione” come rinuncia al sacro e diffusione del peccato, ma che è piuttosto un adempimento del sacro o un’attuazione dello spirito nella materia. Sebbene alcuni studiosi abbiano interpretato Giacchino come un precursore o ideologo di movimenti utopici e politici moderni, come il marxismo (Henkel 2010, Voegelin 1987), – perché il momento futuristico del suo pensiero costituisce il fondamento per una politica da realizzare nel futuro- il suo pensiero non implica un ritorno ad alcuna teologia politica come nella Res publica Christiana. Ciò nonostante, il suo pensiero potrebbe essere caratterizzato come un pensiero della secolarizzazione. Da Gioacchino, ancora secondo Vattimo, si tratta piuttosto di sviluppare un messaggio religioso (la salvezza, amore per il prossimo), e applicarlo e interpretarlo in contesti (mondiali) nuovi.

Il legame fra ermeneutica, secolarizzazione e Giacchino è discusso in particolare nel saggio Storia della salvezza, storia dell’interpretazione in cui Vattimo scrive che:

Il punto è che bisogna vedere i vari processi di secolarizzazione accaduti nella modernità non…come processi di distacco dalla matrice religiosa, ma come processi di interpretazione, applicazione, specificazione arricchente, di quella matrice.” (Vattimo 2002, 70).

Secondo Vattimo c’è una relazione fra la secolarizzazione e l’ermeneutica che, ci sembra, converge con la cosidetta “dissoluzione della metafisica”, terma inspirato dalla filosofia di Heidegger:

É molto probabile che l’ontologia ermeneutica nata dalla dissoluzione della metafisica della presenza non sia solo una riscoperta della chiesa, ma anche e soprattutto una ripresa del sogno di Gioacchino da Fiore.” (Ibid, 73).

Vattimo con “sogno” si riferisce all’idea di Gioacchino per cui nel terzo stato del mondo, nell’età dello Spirito, gli uomini saranno liberi di vivere in carità con gli amici. Questo implica la libertà di produrre le interpretazioni: “la connessione tra storia della salvezza e interpretazione come puri processi di deriva, nei quali-come nel rapporto dell’interpretazione “produttiva” con il testo- non sembra più esservi alcun limite, alcun criterio di validità” (Ibid, 72).

Seppure Vattimo sostenga che grazie alla dissoluzione della metafisica una ripresa del sogno di Gioacchino sarebbe possibile, la secolarizzazione risale tuttavia a un archetipo più fondamentale: “l’incarnazione di Gesù (la kénosis, l’abbassamento di Dio) è essa stessa, anzitutto, un fatto archetipico di secolarizzazione” (Ibid). In altre parole, l’archeologia dell’interpretazione (“ontologia ermeneutica”) correlata all’archeologia della secolarizzazione risale a un punto più fondamentale di Gioacchino: l’incarnazione di Gesù. Non è completamente chiaro come l’incarnazione di Gesù sia collegata all’interpretazione, ma Vattimo sottolinea comunque che “la salvezza si forma, si dà, si costituisce, nella sua storia” e che anche l’incarnazione “ha bisogno delle interpretazioni che lo ricevono, attualizzano, arricchiscono”. Così, secondo il filosofo: “La storia della salvezza procede come storia dell’interpretazione, nel senso forte in cui Gesù stesso è stato vivente, incarnata, interpretazione della Scrittura” (Ibid, 66). Anche se sono molti i problemi, come ha mostrato Riedl (2010), collegati sia all’uso di Gioacchino che all’interpretazione del cristianesimo, ci sembra che l’aspetto storico sia il punto chiave. La storia dell’interpretazione, nel senso di Vattimo significa processo mai terminato e continuo.

Dato questo contesto possiamo cercare di comprendere l’interpretazione che dà Veiteberg del vangelo di Natale. Si tratta qui di un’interpretazione religioso/cristiana o non-religioso/secolarizzata? Sulla base di quanto abbiamo detto finora, pensiamo che una questione del genere non sia del tutto corretta. Dobbiamo al massimo esaminare la forma di pensiero secolare e/o cristiano che esprime. Non vogliamo dire che Veiteberg sottoscriva direttamente gli insegnamenti di Gioacchino, abbiamo già detto che non è questo il punto qui. Il punto è piuttosto mostrare che il cogliere un rapporto tra una storia cristiana centrale e le vite delle persone che vivono oggi in questo mondo, fatto da Veiteberg, dipende da un fondamento o condizione filosofica. E Gioacchino ha fornito un tale fondamento.

Domandarsi se la storia di Gesù Bambino, Maria e Giuseppe dica qualcosa al di là del suo contesto storico, significa interrogarsi se dica qualcosa sull’oggi e se abbia un significato per altri che per i credenti. Ma forse questo è anche un modo inesatto di vedere la questione. Se leggiamo la storia di Natale come una storia di persone in fuga (basata sull’amore per il prossimo) e come una richiesta di assistere gli sfollati, il contenuto di questa storia non sarà espresso fino a quando non sarà reinterpretato e praticato in questo mondo. Possiamo allora dire che il Vangelo di Natale “evolve” attraverso la sua nuova interpretazione in base al contesto storico in cui viene letto, ma in tal modo viene abolito anche il rapporto dualistico tra l’eterno e il temporale.

Perché collegare anche la filosofia di Vattimo all’archeologia filosofica? Da un lato, Vattimo articola suggerimenti importanti e pertinenti che mostrano una connessione tra il progetto ermeneutico, la secolarizzazione e il ruolo di Gioacchino nella comprensione di Veiteberg. D’altro lato, l’indagine dell’archeologia filosofica appare distinta dall’ermeneutica. Mentre l’ermeneutica tende ad affrontare qualsiasi significato nel passato come qualcosa che è accaduto, l’archeologia filosofica mostra che il “passato” esiste solo dopo, nell’attuale. Sono compatibili le due? Quando Vattimo afferma che l’incarnazione di Gesù è “un fatto archetipico di secolarizzazione” ci pare che abbiamo trovato un punto simile a quello di Agamben quando mostra che il dualismo o separazione risale al senso della parola “religione” (ogni separazione contiene in sé un nucleo genuinamente religioso, Agamben 2005, 84). Ossia, né Agostino né Gioacchino possono aver messo in moto i loro pensieri. Anche i loro pensieri risalgono a un’arché più antica o fondamentale. Sia l’istituzione della religione antica come attestato dall’ etimologia di relegere (Benveniste 1969), sia l’incarnazione di Gesù come fatto archetipico sono, nella prospettiva dell’archeologia filosofica, dei passati che non sono mai avvenuti. Non perché non si siano mai svolti in un certo periodo, ma perché la loro attualità è nel presente. Un presente per il quale sono un passato.

 

 Bibliografia

Agamben G. (2004). Archeologia di un’archeologia, in E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia. Macerata: Quodlibet.

Agamben G. (2005). “Elogio della profanazione” I: Profanazioni. Roma: ritmo notturno.

Agamben G. (2008). Signatura rerum. Sul metodo. Torino: Bolatti Boringhieri.

Agostino. (2019). La città di Dio. Introduzione, traduzione, note e apparati di Luigi Alici. Firenze/Milano: Bompiani.

Augustin. (1957). De civitate Dei /City of God. Harvard: Loeb classical library.

Alunni S. (2018). Secolarizzazione Gioachimita e teologia politica. Il messianismo di Giuseppe Mazzini. Roma: Edizioni Studium.

Bangstad S. Leirvik O. Plesner I. T. (ed.). (2009). Sekularisme med norske briller. Bergen: Fagbokforlaget.

Benveniste E. (1969). Le vocabulaire des institutions indo-européennes. 2. Pouvoir, loi, religion. Paris : Les édition de minuit.

Bergem R. M. (2019). Politisk teologi. Oslo: Dreyer.

Bonfanti A. (2016) Le forme dell’analogia. Studi sulla filosofia di Enzo Melandri. Arricia: Aracne.

Borghesi M. (2008). L’aera dello spirito. Secolarizzazione ed escatologia. Roma: Edizioni Studium.

Borghesi M. (2018). Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era constatiniana. Bologna: Maretti 1820.

Botvar P.K. & Schmidt U. (2010). Religion i dagens Norge. Mellom sekularisering og sakralisering. Oslo: Universitetsforlaget.

Cavazzini A. (2010). “Archeologia” in Enciclopedia filosofica. Milano: Bompiani.

Crocco A. (1986). “Il superamento del dualismo agostiniano nella concezione della storia di Gioacchino da Fiore”, in L’eta dello spirito e la fine dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel gioachimismo medievale. Del II congresso internazionale di studi gioachimiti. Centro internazionale di studi gioachimiti.

da Fiore Gioacchino. (1994). Enchiridion super Apocalypsim / Sull’Apocalisse. A cura di Andrea Tagliapietra. Milano: Feltrinelli editore.

Dagbladet (2021). “Hører ikke hjemme i kirken”. [Scaricato da:] https://www.dagbladet.no/nyheter/horer-ikke-hjemme-i-kirken/73781644

de la Durantaye L. (2010). “La filosofia profana di Giorgio Agamben” [Scaricato il 13.11.19 da:] http://www.decolonizing.ps/site/wp-content/uploads/2010/03/deladurhomoprofanus.pdf

Dumont L. (1983). Essai sur l’individualisme, Paris: Éditions du Seuil.

Eriksen T. B. (2000). Augustin. Det urolige hjerte. Oslo: Universitetsforlaget.

Furseth I. (ed.). (2015). Religionens tilbakekomst i offentligheten? Oslo: Universitetsforlaget.

Gentile E. (2007). “Le religioni della politica. Definizioni, distinzioni, precisazioni” in Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi. Bari-Roma: Editori Laterza.

Gelasius. (1974). GELASII PAPAE ad Anastasium Augustum (Epistola 12), in Epistolae Romanorum pontificum genuinae et quae ad eos scriptae sunt a s. Hilario usque ad Pelagium, (ed. Andreas Thiel). New York: Georg Olms Verlag.

Gilson É. (2005). Les métamorphoses de la cité de Dieu. Paris : Vrin.

Grassi P. (2010). “Teologia della secolarizzazione” in Enciclopedia filosofica. Milano: Bompiani.

Grundmann H. (1927). Studien über Joachim von Fiore. Springer Fachmedien Wiesbaden GMBH.

Henkel M. (2010). Eric Voegelin zur Einführung. Hamburg: Junius Verlag.

Henriksen J.O. e Christoffersen S. Aa. (2010). Religionenes livstolkning. Innføring i kristendommens religionsfilosofi. Oslo: Universitetsforlaget.

Ianniello S.A. (2017). “Gioacchino da Fiore: Una questione storiografica” in: (Pizzo A. e Pozzoni I.) Filosofi e modernità. Antichi e nuovi sentieri III. Casa Editrice Limina mentis.

Koselleck R., Meier C. (2004). „Fortschritt“ in: (Brunner. O, Conze. W. Koselleck R.) Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexicon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland. Bd. 2. Stuttgart: Klett-Cotta.

Koselleck R. (2018). “Zeitverkürzung und Beschleunigung. Eine Studie zur Säkularisation” in: Zeitschichten. Frankfurt: Suhrkamp.

Larsen F.B. (2007). “Tyveri! – til sekulariseringens semantik”, Slagmark, tidsskrift for idehistorie 48, 139-158. Aarhus.

Latour B. (1997). Nous n’avons jamais été modernes. Paris : La decouverte.

Lettieri G. (1988). Il senso della storia in Agostino d’Ippona. Edizioni Borla. Roma.

Löwith K. (1949). Meaning in history, Chicago University Press.

Lubac H. (2014). La postérité spirituelle de Joachim de Flore. Paris: Edition du Cerf.

Marramao G. (2005). Potere e secolarizzazione. La categoria del tempo. Torino: Bollati Boringhieri.

Marramao G. (1994) Cielo e terra. Genealogia della secolarizzazione. Roma-Bari: Laterza.

Penzi A. (2008). “Profanation of the Profane, or, Giorgio Agamben at the Moscow Biennale”, Tandfonline, [scaricabile da]: https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/08935690802134008?scroll=top&needAccess=true&

Potestà G.L. (2010). “Gioacchino da Fiore” in Enciclopedia filosofica. Milano: Bompiani.

Reeves M. & Gould W. (1987). Joachim of Fiore and the myth of the ternal evangel in the nineteenth century. Oxford: Clarendon Press.

Riedl M. (2011). “The Secular Sphere in Western Theology”, in The Future of Political Theology. (ed. Losonczi et al.), Ashgate.

Riedl M. (2010). “The permanence of the eschatological: Reflections on Gianni Vattimo’s hermeneutical age” in Discoursing the Post-secular. Essays on the Habermasian Post-Secular Turn. (ed. Losonczi P. e Singh A.) LIT.

Scattola M. (2007). Teologia politica. Lessico della politica, Bologna: Società editrice il Mulino.

Schaaning E. (1992). Modernitetens oppløsning, Oslo: Spartacus.

Stimilli E. (2019). Jacob Taubes. Sovranità e tempo messianico. Brescia: Morcelliana

Strätz e Zabel. (2004). «Säkularisation, Säkularisierung» in (Brunner. O, Conze. W. Koselleck R. ed.) Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexicon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland. Bd. 2. Stuttgart: Klett-Cotta.

Svenungsson J. (2011). “Det eviga Evangeliet. Joakim av Floris och den romantiska drömmen om en ny religion” in: Lychnos. Årsbok för idé- och lärdomshistoria. S. 169-182.

Svenungsson J. (2016). Divining history: Prophetism, Messianism and the Development of the Spirit, London/New York: Berghahn Books.

Taubes J. (2007). Abendländische Eschatologie. Berlin: Matthes & Seitz.

Taubes J. (2019). Escatologia occidentale. Macerata: Quodlibet.

Taylor C. (2007). A secular Age. Belknap Harvard.

Vattimo G. (2002).  Dopo la Cristianità. Per un cristianesimo non religioso. Garzanti.

Voegelin E. (1987). The new science of politics. Chicago: The university of Chicago.

Weber M. (1995). Protestantismens etikk og kapitalismens ånd. Oslo: Pax forlag.

NRK, 2019. [Scaricato il 24.04.20. da]: https://tv.nrk.no/serie/kvelden-foer-kvelden/2019/MUHU23000019/avspiller

 

Note di chiusura

[1] Che una “teologia politica” possa anche essere un pensiero di secolarizzazione può sembrare ad alcuni strano, dato che intendiamo con “secolarizzazione” sia la sparizione della religione sia la marginalizzazione della influenza della teologia. Cfr. il capitolo esplicativo “Teologia politica come secolarizzazione” in di Massimo Borghesi, Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana (2018, 9-22).

[2] Nostra traduzione.

[3] Dato che “secolarizzazione” è un concetto e un tema molto discusso tra i filosofi italiani (per esempio Marramao 2005, Vattimo 2002) è strano che nell’Enciclopedia filosofica edita da Bompiani (2010) nuova edizione si trovi “unicamente” un approccio teologico, “Teologia della secolarizzazione”. Ciò nonostante, l’articolo è molto pertinente nel contesto di questo saggio.

[4] Mentre usualmente si distinguono tre modelli antichi di teologia politica: Eusebio di Cesarea, Gelasio e Agostino (Borghesi 2018, ff. p. 54, Scattola 2007, 38-50), Agostino rappresenta piuttosto una critica della teologia politica cristiana (Borghesi 2018).

[5] A queste due letture di Agostino (dualista e dialettico) potremmo aggiungere quella di Robert Markus che conclude dicendo che: “La teologia di Agostino rigetta la dicotomia tra sacro e profano” (Markus in Lettieri, 116).

[6] Expositio magni prophete abbatis Joachim in Apocalipsim. Opus illud celebre: aurea: vsque: ac preceteris longe altior & profundior explanatio in Apocalipsim abbatis Joachim de statu vniversali reipublicae christianae. Ed. Ad utilitatem & consolationem fidelium (nutu diuino detecta atque reserata) in lucem primo venit. Cui adiecta sunt. § Eiusdem psalterium decem cordarum … § Lectura item perlucida in Apocalipsim reverendi magistri Philippi de Mantua … Index quoque sumarius pulchriora uniuersa deflorans. (Venetijs: in calcographia Francisci Bindoni & Maphei Pasyni sociorum impressum. Expensis vero heredum q.D. Octaviani Scoti ciuis Modoetiensis ac sociorum, 1527, die vero XVII mensis Aprilis).

[8] Gioacchino da Fiore, Sull’Apocalisse, (a cura di Andrea Tagliapietra), Feltrinelli, Milano, 1994. Gioacchino da Fiore, Introduzione all’Apocalisse, (prefazione di Kurt-Victor Selge, traduzione di Gian Luca Potestà), Viella, Roma, 1996. Gioacchino da Fiore, Commento ad una profezia ignota, (a cura di Matthias Kaup, traduzione di Gian Luca Potestà), Viella, Roma, 1999. Gioacchino da Fiore, Trattato sui quattro vangeli, (a cura Gian Luca Potestà, traduzione di Letizia Pellegrini), Viella, Roma, 1999. Gioacchino da Fiore, Dialoghi sulla prescienza divina e predestinazione degli eletti, (a cura di Gian Luca Potestà), Viella, Roma, 2001. Gioacchino da Fiore, Il Salterio a dieci corde, (a cura di Fabio Troncarelli), Viella, Roma, 2004. Gioacchino da Fiore, Sermoni, (a cura di Valeria de Fraja), Viella, Roma, 2007. Gioacchino da Fiore, I sette sigilli/De septem sigillis, (a cura di J.E. Wannenmacher, traduzione di Alfredo Gatto), con un saggio di Andrea Tagliapietra, Mimesis, Milano 2013. Gioacchino da Fiore Sull’Apocalisse.(Testo latino a fronte) A cura di: A. Tagliapietra, Feltrinelli, Milano 2018. Gioacchino da Fiore, Concordia del Nuovo e dell’Antico Testamento. Libri I-IV, a cura di Gian Luca Potestà, Roma, Viella 2022.

Marina Ngursangzeli Behera, Michael Biehl and Knud Jørgensen (eds.), Mission in Secularised Contexts of Europe: Contemporary Narratives and Experiences (Oxford: Regnum Books, 2018)

This is a very well produced book: despite there being 16 contributors and 3 editors, it is a fine example of “reconciled diversity”. Each essay derives from a different geographical/theological standpoint, yet all coming together as a readable logical unit.

The editorial introduction sets the scene, defining Secularism, pointing out that Secularism may be the unforeseen fruit of Christianity, religious ignorance having displaced religious knowledge, Christendom disappeared, a dramatic drop in church adherence being universal, and the separation of church and state now the norm.

The book’s aim is a sharing of experience in diverse contexts rather than providing glib answers. There is a brief survey of the internal church processes that have fuelled Secularisation, Bonhoeffer and his call for “Religionless Christianity”, the growth of scientific understanding meaning an end to the “God of the Gaps”, the Death of God process of the 1960’s, etc. Yet the paradox is noted that while Bonhoeffer spoke of “Religionless Christianity”, his magnum opus was The Cost of Discipleship, which had a seminal effect on this reviewer, among many others, with its stress on the need to avoid Cheap Grace and its call for total Discipleship at whatever cost. This written against a backcloth of being a faithful Christian in Nazi Germany.

The essays which follow tackle the issue in different ways, but each is written by one who has an inside knowledge of the area of being referred to. Some emerge from a background of culture where there had been deliberate attempts to eradicate religion, e.g. Romania, where there was declared to be “no room for God”, while others simply record a gradual decline in European Church affiliation. Since there is no “one size fits all” style of community, so there can be no single solution to the problem of growing Secularisation. Many issues are raised that made this reviewer think: religion was for centuries a means of identity, e.g. mediaeval Christendom, the post 30 Years War division of Germany, etc; we define ourselves differently now; we no longer gain identity by what we join or to whom we are related, even if we should. Individualism, to be oneself whatever that means, do what you like, etc., is now all pervasive.

Can we believe without belonging? Is there such a thing as solitary Christianity? After all, much of Evangelical Christianity lays great emphasis on Jesus Christ as personal saviour, i.e. what matters is the individual’s relationship with God not with his fellows. There has been a gradual decline of the influence of traditional guidelines; modern life is less vulnerable, chance and change are no longer feared. Life is no longer, in Hobbes’ words, “nasty brutish and short”, hence no place is left for superstition or a god of the gaps. The idea is advanced that we can have Christian ethic without the dogma; true, we have ditched the dogma, but it seems to me that we are now abandoning the ethics and values as well. Can we have the Christian ethic without worship and a congregation?

One minor quibble, the essay “from a British Perspective” is not only 100% about England, it is totally about the Church of England. The Church of England’s 5 Marks of Mission, which form the basis of the essay, may have had considerable influence  in that denomination over the last 30 years, but other “English” churches are doing “exciting things” on the British Isles. Also, the Irish are discovering that you can indeed be Irish and proud of it without being a Roman Catholic. The Scottish “twa kingdoms idea” (the Church of England is state controlled) would have offered insight into one way of resolving the tension between church and state. So, a more British Perspective would have been beneficial.

Of value is the discussion of the conflict between Communism and religion, for the former also claims to be “the way the truth and the life”; Communism is for some almost a religion, being not just a political theory but a complete existential ideal. Yet it has proved all but impossible to eradicate religion; the Orthodox Churches have long had to live under a state unsympathetic to their faith but learned to adjust.

I was intrigued with the idea that God can be seen as creator and also as telos, the end to which we travel; this however leads to the absence of the influence of religion in the here and now, except that those who follow the faith may well be a seminal influence in the world around them. There is an acceptance of the vulnerability of religion in the modern world, and the final comments include the observation that we may well be in a similar situation to the churches of the book of Revelation, puny as an infant’s arm being confronted by the power of secular forces. Note is made of the considerable European growth of Islam and the fact that religions other than Christianity are playing a significant role in modern European society and thought.

The essays from Africa and India where religion is all pervasive were especially valuable. Members of the migrant churches cannot understand how folk can live without religion and the problem faced by second-generation migrants is how to be loyal to their native tradition and also good citizens of a secular society. The central issue is how do we live in a world that is so overwhelmingly materialist? I particularly warmed to the challenge – is our situation “graveyard or laboratory”, but even if it be a graveyard, Christianity was born out of a belief that new life follows death.

To sum up, there is indeed more than one narrative; and I could identify with the comment in the Epilogue about organised religion no longer being the custodian of a museum. For the church has not only a great past but has a real future, and reading this book will encourage us to believe that and to continue, as a prayer of the Iona Community puts it, to “find new ways to touch the hearts of all.”

This book will be of value not just to those interested in religion; the issues raised have had a great influence in politics, law, ethics and social policy. The changing attitudes to identity and the cult of individualism affect every area of life.

Die Versprachlichung des Sakralen: The Transformation of the Authority of the Sacred into Secular Political Deliberation in Habermas’ Theory of Communicative Action

Taking Weber’s thesis in consideration, it seems difficult to uphold Habermas’ thesis about a happy transformation of the sacred into deliberation. The consequence is that morality can only be successful in so far as the validity claims of communicative ethics can be institutionalized in modern society without any reference to holiness. This seems also to be the general conclusion in Habermas’ work – ironically apart from his theory of secularization.

Cornelius Castoriadis’ theory of the imaginary institution and Claude Lefort’s theory of the empty place of the political as a new insecure moral ground for modern society are presented together as an alternative theory of secularization which can serve as a new framework for Habermas’ theory of communicative ethics and deliberative politics in modern society.

  

  • Die Versprachlichung des Sakralen 

It has been astonishing to observe over the last decade a growing interest for religion not only in more or less premodern societies around the world, but also in the western world. The many theories about secularization seem to have been shocked by this reappearance of religion and this can give a good reason to reconsider what could be a common ground for a modern secular society. Here I find the German philosopher Jürgen Habermas’ thesis about die Versprachlichung des Sakralen, the linguistification of the sacred, especially interesting, because Habermas has formulated an optimistic theory about how the sacred could be safeguarded in a harmonious transformation into deliberation in modern society. By discussing this theory the aim should be to try to understand why secular society has not been safeguarded from discussions of religion such as has been the case in the last decade.

In connection with his development of the theory of communicative action, Habermas claims that the sacred is transformed in a positive way and can take the form of free deliberation in society (Habermas 1981, II: 118 ff.; Habermas 1989, II, 77 ff.). Habermas speaks in this connection about die Versprachlichung des Sakralen. The thesis is that the authority which could be found in religion, and which is of fundamental significance for the integration of pre-modern societies, is taken over by modern society in forms of deliberation.

Habermas develops this thesis in a discussion of Durkheim’s religious-sociological considerations about the transformation from mechanical to organic solidarity. Durkheim indicates this transformation of the authority of law from unconditional, which is exercised through punishment, to contractual, which is exercised through debate, proceedings and compromise. Habermas interprets this transformation of law in saying that the contract represents a linguistic transformation of law that has similarities with the linguistic transformation of the authoritative character of religions in modern society. But so far as I can see, this argument is not valid because we cannot compare religion and civil law in this way. Law can be compared to religion because law in different ways has its origin in religion. But this argument cannot be turned around. Religion cannot be explained by law. I should like to add that, in my opinion, Durkheim is not the most interesting of the classical sociologists with regard to religious-sociological considerations, because he is mostly occupied with primitive religions, which is the case in his main work, The Elementary Forms of Religious Life (Durkheim 1960: 67 ff.; Durkheim 1995: 45 ff.).

Habermas would not have been able to make the same analysis if he had taken his point of departure in Max Weber’s religious-sociological investigations, Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, which in my opinion are much more qualified and differentiated than Durkheim’s sociology of religion (Weber 1988). Weber studied most forms of religions to find out what significance they have had for the integration of different societies. Weber’s conclusion is that the essential significance of religion in society is to give an explanation of how the divine, and in that sense God’s world, can be just when at the same time injustice is dominant in society (Weber 1988a: 242; 571 – 573.). Religion has had the significance to give a solution to this problem of theodicy in all forms of society so that social injustice did not disrupt social integration. The Judaic and Christian religions have here a special status compared to other religions, because the theodicy problem in these traditions is displaced into a demand for a realization of justice in society. This religious claim of social justice is later secularized and integrated in the European tradition of jurisprudence.

  • Weber’s theory of secularization

Weber discusses the question of secularization in The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism (Weber 1988b; Weber 1995). He shows in this analysis that the sacred, the absolute authority of religion, is dissolved in the secularization of European culture and that we therefore have lost the relation to religious authority. This is a much more interesting thesis than Durkheim’s thesis. It is also this thesis of Weber which is the real challenge for Habermas and which he discusses throughout his theory of communicative action. Therefore, we also find later on in Habermas’ analysis of the linguistic transformation of the sacred a discussion where Habermas relates directly to Weber’s theory of secularization, rationalization and differentiation of the occidental culture (Habermas 1981, II: 140; Habermas 1989, II, 92). Here Habermas, in the spirit of Weber, points out that neither occidental science nor art can be the heir of religion. The occidental science is founded upon the criteria of objectivity and art is founded upon the criteria of subjective taste.

According to Habermas, it is only communicative-oriented morals that are able to replace the authority of religion (Habermas 1981, II: 140; Habermas 1989, II, 92). However, this is not valid from Weber’s religious-sociological perspective. According to Weber, the authority of the sacred is dissolved through the secularization of modern society. This is the reason why Weber, in the end of The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism, concludes that we in the occidental culture are dominated by the technical-instrumental rationality because we no longer have a reference to the sacred, which at the end is necessary to uphold morality in any society (Weber 1988b: 202 ff.; Weber 1995: 180 ff..). The paradox is that Habermas follows Weber in this thesis, although he does not follow Weber in his analysis where he, as mentioned, tries to rescue the authority of the sacred in a new secularized form through his reading of Durkheim’s religious-sociological work.

With this background, I will try to sum up my own interpretation. Habermas’ first critique of Weber, which formed the starting point for all of Habermas’ analyses in his theory of communicative action, was that Weber had too narrow an understanding of the rationalization of the occidental culture, because he confounded the potentials of the cultural rationalization with the technical-instrumental rationalization that has taken place historically. I do not only follow Habermas in this critique of Weber; I try to strengthen it because I think that the occidental culture has also been historically rationalized in a communicative direction through historical events such as the Renaissance, the Protestant reformations in their various forms, and through political reformations and revolutions such as the British Glorious Revolution and the French Revolution. Weber does not take these forms of communicative rationalization into regard in his understanding of occidental culture; he is only concerned with the technical-instrumental rationalization. On this point, I think Habermas is right in his critique of Weber. However, I follow Weber in his theory of rationalization of the occidental culture in the sense that I think Weber is right in pointing out that the authority of the sacred is dissolved in this process of rationalization, which could also be called a process of secularization. The question is now what the consequences are for the understanding of the authority and validity of communicative ethics.

The question of the validity of communicative ethics depends on the rational communication in which there can be given good reasons for a specific moral opinion. This is a philosophical problem that Habermas to my mind has treated in a persuasive way. However, the problem is that good reasons are not enough. Habermas sees correctly that in moral questions there is also a problem of authority and he tries to solve this problem through his reading of Durkheim’s religious sociology. But if we follow Weber, the question is whether communicative ethics can acquire an authority in modern society that corresponds to the authority that religions have in pre-modern societies. In this connection, I think Habermas has too widespread an understanding of religion in pre-modern society. Habermas has the understanding that religion in general could give an immediate authority in pre-modern society. But to my mind this is not the case. We have to take into consideration that the authority of religion in pre-modern society was not a free-floating authority. On the contrary, it was mediated through the practice in religious institutions, first of all through cult and worship and secondly through theology in higher forms of religion. Therefore, the authority of religion was not free-floating but bound to institutions in pre-modern society. In the spirit of Durkheim we could even say that it is the institution that gives the authority to religion.

The consequence of this is that communicative action and communicative ethics should be seen in relation to institutions in the same way. From a sociological perspective the decisive point is whether communicative ethics can be institutionalized in modern society, which means the same as whether the institutions of modern society can take such a form that they can mediate communicative ethics in practice.

  • A tragic theory of secularization

The validity of communicative ethics depends upon a philosophical point of view on the tenability of the validity claims. But from a sociological perspective, this is not sufficient. Here the question is whether communicative ethics can be institutionalized in the same way as the authority of the sacred became institutionalized in religion in pre-modern societies. So far as I can see, this is also the line Habermas follows and which he tries to develop in the continuation of his theory of communicative action. But if we do not accept Habermas’ linguistic transformation of the sacred, which I, as previously mentioned, do not, then the consequence for the sociological understanding of communicative ethics is that the claim of its institutionalization is radicalized. Modernity has only a linguistic reference to itself; there are no other references. This internal self-reference can only be upheld if the philosophical validity claims can find their place in practice in the institutions of society.

Habermas presents his thesis about the linguistic transformation of the sacred as a harmonious theory of secularization and therefore it has been an easy target for his critics. However, if we follow Weber in his religious-sociological considerations of modernity, we reach a tragic theory of secularization that poses the real problem that the social ethical challenge consists in securing the institutionalization of the validity claims of communicative ethics in modern society.

The consequence is that Habermas’ theory of die Versprachlichung des Sakralen should be placed in an alternative theoretical framework. In this context, it can be fruitful to look at the philosophers Cornelius Castoriadis and Claude Lefort who have pointed at an alternative theory of secularization where they emphasize the imaginary of the political as an alternative to the imaginary of the sacred as the normative ground for modern democratic society.

  • Castoriadis – The imaginary institution of society

Cornelius Castoriadis developed the concept of the imaginary in his major work The Imaginary Institution of Society (Castoriadis 1975; 1987). Castoriadis defines the concept of the imaginary in this way:

The imaginary of which I am speaking is not an image of. It is the unceasing and essentially undetermined (social-historical and psychical) creation of figures/forms/images, on the basis of which alone there can ever be a question of ‘something’. What we call ‘reality’ and ‘rationality’ is its works. …… What I term elucidations is the labor by means of which individuals attempt to think about what they do and to know what they think. This, too, is a social-historical creation. The Aristotelian division into theoria, praxis and poiesis is derivative and secondary. History is essentially poiesis, not imitative poetry, but creation and ontological genesis in and through individuals’ doing and representing/saying. This doing and this representing/saying are also instituted historically, at a given moment, as thoughtful doing or as thought in the making (Castoriadis 1975: 7–8; Castoriadis 1987: 3 – 4).

According to Castoriadis, society is not only in a permanent historical creation but also in a permanent historical creation of imagination, which forms the ground for a following possibility of creation of objectivity, meaning, etc. that have to be interpreted. Castoriadis speaks of elucidations (élucidation), an enlightenment that must be understood in a hermeneutical sense, which harmonizes well with the fact that he takes his phenomenological approach to the interpretation of history from Heidegger. Thus, the imaginary is a critical hermeneutical interpretation of the social, an interpretation (une élucidation) that takes place ultimately in the political as a project (un projet politique). According to Castoriadis, the political is the ultimate horizon of interpretation for the social and societal.

The important thing is that Castoriadis’ definition of the imaginary can be understood as something historically created, which is to be interpreted through critical hermeneutics. The political forms the general horizon of understanding for hermeneutics. Thus, the political becomes an approach to the interpretation of the social and, secondarily, forms the basis for the interpretation of political institutions in a larger interpretation of social life.

In French, there is a clear linguistic distinction between the political (le politique) and politics (la politique), which is a limited form of action within particular institutions and systems in society (Interview with Marcel Gauchet, Philosophie Magazine N°7). In modern Anglo-American political science, this distinction is, for the most part, lost or maintained as a distinction between political philosophy and empirical political science. The problem with this approach is that the political then loses its meaning as a social fact that is generally determinative for politics, and that political science then loses its relation to the determinative horizon of understanding within the political.

The central point is that Castoriadis’ understanding of the creation of the imaginary in the form of the political can be seen as a competing concept to Weber’s concept of the sacred. In this connection it should be emphasized that according to Castoriadis, it is only in the Antique democratic city-state and later on in the modern democratic state that politics is conceptualized and, therefore, it is in the Antique democratic city-state that the political historically first is constituted. This coincides with the fact that it is only the democratic city-state and later on modern democracies that have freedom as the central focal point. In Castoriadis’ perspective history has mostly been dominated by totalitarian states and societies.

  • Lefort – … from the speech of power to the power of speech

This is also the premise of Claude Lefort’s analysis that most societies in history are of a totalitarian character and that the democratic city-states in antiquity and the democratic states in modern times form an exception or a breach with the dominance of totalitarianism. Lefort develops his ideas in a critique of the totalitarian Eastern European societies and states, and he uses the French Revolution as an important historical example of the transition from a totalitarian society to a free society.

What is important in Lefort’s analysis of the French Revolution is that the prince as the incarnation of the totalitarian state is replaced through the revolution by “un lieu vide”, an empty place (Lefort 1986b: 27; Lefort 1988b: 17 f.). Whereas power in the totalitarian state is substantial as an incarnation in the prince, it can only be representative and symbolic in the democratic state, because this lieu vide cannot be occupied substantially. In this way, a new symbolic order is constituted in which democratic society is instituted as a society without a body (sans corps), in which the organic totality in the form of the prince is brought to an end (Lefort 1986b: 28; Lefort 1988b: 18). Democratic society thus becomes a society that, from a philosophical point of view, is in permanent incertitude, because it can never have any real substantial definition. Any definition can only stand as long as it is not made problematic.

This is especially clarified in Lefort’s analysis in the essay ‘Interpreting Revolution within the French Revolution’, that the empty place, le lieu vide, presents the fundamental change in the imaginary of society from the regime of the powers word to the spoken words power, or with Lefort’s word: “But whereas it was once the speech of power which ruled, it is now the power of speech” (Lefort 1986c: 134; Lefort 1988c: 110).

It is this idea that provides the foundation for the understanding that language is the ground of democracy, insofar as it is the essence of language that any statement can only acquire validity by being made problematic. We can say that Habermas develops the idea in Lefort’s political philosophy in a differentiated way including the whole problem of practice and institutions in a modern democratic society. It is Lefort’s paradoxical political-philosophical thesis on permanent incertitude as the cohesive binding in modern society that makes it clear that it is only the possibility of criticism that can lead to the constitution of a morally founded order in modern society. The moral order in modern society is paradoxical; it cannot have a substantial character relating to the sacred or something similar as the moral order has been understood throughout most of history, including our own time. This moral order can only exist in modern society through the possibility for criticism – thus, the moral order cannot ultimately be defined but must be kept open in the sense that it always is in the process of being defined.

It is this abstract definition that we see play out in modern democratic society. Governments are changed regularly, presidents only hold office for limited periods and laws are reformulated when necessary. From a substantive moral and political point of view, this must all seem irrational and reprehensible. But the rationality consists of the fact that le lieu vide has replaced the substantive and, therefore, it would be irrational and totalitarian from this point of view to refer to a positive substantive morality. Norms are constituted by raising questions as to their validity.

  • The union of ethics and politics

Here we find the mediation between Lefort and Habermas. The central point in Habermas’ work is similar to Lefort’s, namely that language is constituting society and in that sense is its fundamental institution. Society has to be understood through language. This is the way whereby Habermas gives the key to understanding the mediation between ethics and politics. Ethics and politics become the two sides of one and the same matter.

Communicative ethics is a Kantian form of language-ethics in which it is possible in positive terms to determine the criteria for action. But Habermas goes beyond Kant’s ethics in three ways. Firstly, in Kant’s ethics, there is an impassable distinction between, on the one hand, the intelligible world, in which the free will and duty in the categorical imperative is found; and, on the other hand, the phenomenal world, which is dominated by desire, subjective motives and institutions (Habermas 1991: 20 f). In communicative ethics, this distinction is mediated through the common use of language. Secondly, communicative ethics transgresses through the public discussion the inner Kantian monologue about the maxims for action. Thirdly, the Kantian problem of the reasonable justification of ethics is transformed into a problem of universal argumentation in dialogue with the other.

The central thing is that discourse ethics is consolidated in the immediate use of language, and that it is not possible to transcend this usage because language is the fundamental instance which is simultaneously used in an immediate sense.

This leads us to the discussion of politics, which according to Habermas is also based on the immediate linguistic practice in the public sphere. This understanding represents a discourse-theoretical transformation of the Kantian understanding of politics. There is in this understanding of politics a moral dimension insofar as the ethical maxims should provide the basis for the general law. However, whereas Kant’s morals are bound to individual reason, morals in discourse ethics are bound to public deliberation where maxims are determined, which should be the basis for common law. In this way the same problems in Kant’s understanding of politics find their solution as in his understanding of ethics. These are the contradiction between the idealistic and the phenomenological perspective, the transgression of the monologue and finally the problem of the justification of norms. Following this, politics can, according to Habermas, be determined as a public deliberation between the implicated parties about problems which concern them all, and as a determination of the maxims which should be the basis for determination of the common law. There is in this way an inner connection between ethics and politics that makes them into the two sides of one and the same matter. On the one hand, ethics cannot be sustained without politics because ethical deliberation must take place between people in the public sphere, and this is also the determination of politics. On the other hand, politics can only be sustained on the background of the discussion of the maxims that underlie the common law, and this is also the determination of ethics. The public sphere is the common meeting place for ethics and politics because both ethics and politics demand the possibility of public deliberation.

  • Bifurcation – negation – validity claims

The public sphere is constituted through the immediate and free public dialogue between people. It is the use of language that constitutes the public sphere, and there is no public sphere except through the use of language. However, the public sphere can be institutionalized. That means that a possibility can be secured for a public dialogue in advance. This is the precondition for politics and political institutions in modern society insofar as there could not be any politics without a public sphere. This is an abstract ideal type in the Weberian sense, which can be further developed in a philosophical, sociological, political-scientific and historical perspective.

The essential matter is to maintain the fundamental unity between ethics and politics, which in principle cannot be divided. This is the positive Kantian perspective. This is broken up in practice, when we take the Hegelian perspective. Modern society, according to Hegel, is bifurcated (Entzweiung), which has the consequence that moral unity cannot be sustained. However, this principle does not abolish the close connection between ethics and politics but it makes the connection more differentiated and complicated. The public sphere can no longer be sustained in the singular. In practice, it takes the form of a plurality of voices that cannot form a harmonious symphony and where it is not consensus but dissent that dominates. Therefore, the public sphere and critical discussion should be viewed as existing together in modern society.

Habermas himself is aware of this and speaks in several works about das Nein-sagen-Können, i.e. about the possibility to negate, the determinate negation, and try out the validity of a proposition (Habermas 1981, II, 113 ff.; Habermas 1989, II, 73 ff.; Habermas 1992: 394, 515; Habermas 1996: 324; 427). However, the principle of negation does not suspend the Hegelian bifurcation. The consequence is that it is not possible from a sociological and a political-scientific perspective to retain the thought of consensus as the fundamental condition for politics in modern society. However, this is not the essential point. The essential point is that politics has its centre in the dialogues taking place in the many public spheres and that it is possible from a philosophical perspective to test the validity of a statement. This represents a negative reading of Kant and Habermas, which aims at retaining the validity claims that are the fundamental crux of the matter in their political philosophies. This negative reading of Kant’s and Habermas’ political philosophies is not in principle suspended by the reality principle, such as it is represented in the traditions of sociology and political sciences. In these traditions, politics must be regarded by necessity as a positive concrete matter, which is subject to the reality principle insofar as praxis is bound to positive action. Nevertheless, the validity claims are not sustained by the reality principle. They constitute the instance that makes it possible to justify human action in the perspective of the reality principle.

In this way we reach an understanding of politics that contains both a reality principle, in the form of the linguistic praxis under the conditions that are given in modern society, and a philosophical principle, which concerns the questioning of the validity of this praxis. The concept of praxis must by necessity be a positive determination; the concept of validity must by necessity be a negative determination. Therefore, there must by necessity be a contradiction in politics between the positive and the negative determinations, which neither can nor should be dissolved. It is fatal only to regard politics under the perspective of the reality principle, and it is an illusion only to regard politics under the perspective of negation, without any relation to the reality principle. It is necessary all the time to take both perspectives into consideration when we deliberate about politics. We have to have both a Kantian and a Hegelian perspective on politics all the time. This is possible in Habermas’ political philosophy.

  • Civil society

Habermas’ political philosophy is fundamentally a Kantian political philosophy, insofar as his fundamental problem is to discuss the possibility to raise the validity claims for moral and political action, which he imagines can be done through free deliberation between the implicated parties. The great problem arises when the Hegelian perspective is introduced, where Habermas has to explain how such a deliberation can take place in modern society. It could be said that Habermas introduces a communicative transformation of the Hegelian perspective. Habermas points, like Hegel, at the decisive significance of civil society for moral order in modern society. In civil society the citizens can form associations in which they can discuss their common business. Hegel relates civil society to these associations, whereas Habermas has a much broader concept of civil society, which contains many different forms of associations, societies, unions, organizations, and so on. However, at the same time he also restricts the concept of civil society, insofar as he has a tendency to regard state and economic reproduction of society from a pure systemic perspective, as he describes in his theory of communicative action.

It is not appropriate to restrict the concept of civil society in this way, because a large part of the interaction in modern society, in which state and economics have a great influence, is excluded. This concept of civil society excludes the many institutions in a modern welfare society such as schools, health care, childcare, care of the elderly, and so on, which are organized by states and municipalities, and economic institutions that also have a central role in this connection. Therefore, I work with the broadest possible concept of civil society, which not only contains the institutions that are organized immediately by citizens, but also institutions that are mediated through the state and economy insofar as they are related to the immediate life of the citizens. This concept can be claimed when we, in accordance with Habermas, focus on the public sphere as the centre of civil society, in that it is more the form of communication than the function that is essential for the determination of the institutions in civil society.

Civil society is characterized by a plurality of communication in a plurality of public spheres which all relate to the immediate life of the citizens. This interaction includes not only social movements and associations of citizens, but also state-organized institutions and corporations, insofar as they all play their role in the citizens’ communication in the public sphere. Herewith is raised the old Hegelian problem of whether it could be possible to sum up this variety of communications in the many public spheres in a common morality.

Hegel tried to solve the problem by saying that it should be the state that mediates the contradictions in civil society. The state was therefore seen as being prior to civil society. However, this had the consequence that there could be a tendency in Hegel’s concept of the state to disregard the interaction between state and civil society, and to focus instead on the sovereignty of the state in relation to civil society. This is the reason why Hegel’s concept of the state has often been regarded as a totalitarian concept. However, Hegel is right in saying that the state is prior to civil society in the sense that there could not be a civil society without a state. The problem is whether it could be possible to create mediation between civil society and state.

According to Habermas, it is through the political institutions of democratic society that the many discussions in the public spheres of civil society can be mediated to political decisions. Habermas speaks in his chief work concerning legal philosophy, Between Facts and Norms, about ‘sluices’ through which the deliberations in civil society can be mediated and transformed to decisions in the political institutions (Habermas 1992: 431 ff; Habermas 1996: 356). However, Habermas is not able to give a conclusive solution to the Hegelian problem of meditation between civil society and the state. On the one hand, the deliberations in civil society should only seek to influence the political institutions. In that sense, Habermas’ understanding of civil society relates very much to Hegel’s. But there is no necessity in this influence. On the other hand, the political institutions can only be representative through procedures which are acceptable to all parties in society (Habermas 1992: 449 ff.; Habermas 1996: 371 ff.). Finally, it seems that we are confronted with the same bifurcation as was thematized by Hegel. Therefore, it is not possible to say that there should be any necessary positive mediation of moral discourses that can constitute a real substantial social morality in civil society.

  • Testing deliberation as the form of morality in modern society

The question now is what the consequence of this could be. This is the central problem in the discussion of social morality and the solution, as mentioned, cannot be a positive substantial social morality. We here come back to the problem of how we should interpret Kant’s ethics. One way is to interpret it in positive terms as an attempt to constitute positive norms. However, it seems as if this way is not passable. The other possibility is to read Kant’s ethics in negative terms as a critical ethics, where the crux of the matter is the possibility to test the normative validity of the maxims of an action. This is in my opinion the right way to read Kant, and it is the same way that we should consider Habermas’ communicative ethics. This should also be read critically as the possibility to test the validity of the normative maxims for an action. The consequence is that it is decisive that the institutions of civil society and the political institutions take such a form that it is possible in praxis to have a testing deliberation about the normative maxims for an action. In this connection it becomes decisive that there are public spheres in each institution where such critical deliberations can be raised. It is not possible to constitute a positive substantial moral in society. But it should be possible under the aforementioned conditions to test critically the validity of the normative maxims, if there is sufficient freedom in the public spheres of the institutions to raise the validity claims in relation to dominant discourses and preconceived opinions. For this reason ethics in society can only be secured indirectly by the constitution of the conditions which are necessary for the critical test of the validity claims.

On the immediate level, we can here refer to Kant, who ascribes the individual with the capability to ask the reasons for the validity which lie at the root of the determination of social norms. We have to start here, because this is the precondition for posing the question of validity. On the next level there is the possibility that more people can question the validity of the maxims, which form the basis for common action. However, here we are still at a level that does not necessarily have any influence on the public discussions in society. The problem is whether these deliberations can become public and take their place in the political institutions in democratic society.

It is evident that the form that politics and political institutions take should be understood positively at first. The social must always be understood in a positive way. But the characteristic of the political institutions and the political system is that they cannot only be understood in a positive way, because they have to be legitimized. The question of legitimization always concerns the validity of the political action in the institutions. Here, we come back to the problem of a critical reading of Kant. According to Kant, political institutions are legitimate insofar as there is a fair chance to participate. This does not necessarily mean that political interaction in the institutions takes an ethical form. According to Kant, we have to make a distinction between ethics and politics (Kant 1966: RL § 43 – §49, p. 311 – 318). Therefore it is not possible to claim that there should be a necessary positive connection between ethics and politics. The consequence is that ethics cannot be directly secured in a positive way in the political institutions. This does not mean that it should not be possible to sustain ethics in the political institutions; but there is not necessarily an internal positive connection between ethics and politics. The connection between ethics and politics can only be created indirectly through the possibility of questioning political action from an ethical point of view. However, this demands that there is a real possibility of raising such a question. According to Kant, this should be possible, and Habermas is of the same opinion. However, we have to take into regard that this is a political and philosophical claim that cannot necessarily be argued from the perspective of political science and sociology. In reality, politics takes its own institutional forms, where it is not deliberation but power which is in the centre. This is the general opinion in political science and sociology. The discussion is whether legal order can be understood by itself or whether it necessarily implies a form of legitimization. As long as we regard the political institutions from a positive perspective, they can be regarded as a part of the legal order, which can be seen as a self-sustaining institutional arrangement without need of further legitimization. This is Hegel’s and Weber’s perspective. But when conflicts arise, this perspective becomes insufficient. It becomes necessary to question the legitimacy and thereby the validity of the political order. This is Kant’s and Habermas’ perspective. Such a questioning does not only concern the political order but also the ethical validity of political action.

  • The open society and the totalitarian temptation

Herewith we return to the problem of whether a critical ethics can be institutionalized. So far as I can see, this is not possible insofar as this would mean the same as that critical ethics could be regarded as a pre-given substantial ethics, which could be determined in positive terms. However, this does not have the consequence that the critical ethical investigation is excluded from the political institutions. On the contrary, it is part of the understanding of the political institutions in a democratic society that they should be a constituent part of the public sphere. This gives the possibility to formalize the rights to question the political institutions, and this is the case in a modern democratic constitutional state. However, we again have to take into regard that such rights are formal rights and therefore do not necessarily say anything about how they function in practice. In this connection Kant would say that it is not possible to go further from a philosophical point of view. In Habermas’ perspective, things are different because he takes Hegel’s perspective, in which the political culture is essential for the understanding of the political institutions in society.

The conclusion is that there should be a close relationship between ethics and politics in modern society. However, this connection can only be secured indirectly through the formalization of civil rights to take part in political deliberation and through the cultivation of these rights in the public spheres of society. Therefore, a philosophical discussion of the relation between ethics and politics is insufficient; at the same time we have to introduce the empirical perspective of political sciences and sociology. It is not enough to have the correct Kantian idea; we must conclude with Hegel that ideas have to be well-founded in social and institutional practice in society. Habermas has created this mediation between Kant’s and Hegel’s perspectives, which should be interpreted critically.

Here we meet the difficult problem which can contribute to explain why religion anew has become a central topic in the discussion of moral norms in modern society. In modern society, it is not possible to present the positive mediation of norms that could give a justification of positive substantial norms. Therefore one could say that there is a fundamental normative insecurity in modern society, or along Claude Lefort’s understanding, an insecure ground of an empty normative space, that can be upheld only as empty so long a time as there is in praxis a living that does not end discussion about norms and their justification, and concerns all forms of normative problems in democratic society. In praxis, it can be difficult to fulfil such a living discussion in a modern democratic society and therefore there can always be a temptation to revitalize substantial norms grounded in tradition and religion. From a modern perspective, this represents what Lefort would describe as an attempt to reinstall a totalitarian formation of society, which falls behind the French Revolution.

Bibliography

Castoriadis, Cornelius (1975), L’institution imaginaire de la société, Édition du Seul, Paris.

Castoriadis, Cornelius (1987), The Imaginary Institution of Society, Polity Press, Cambridge.

Durkheim, Émile (1995), The elementary forms of religious life, The Free Press, New York.

Durkeim, Émile (1960), Les formes élémentaires de la vie religieuse, Presses Universitaire de France, Paris.

Habermas, Jürgen (1981), Theorie des kommunikativen Handelns, Volume I-II, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main.

Gauchet, Marcel, Interview: ‘Le politique permet à la société de tenir ensemble’, Propos recueillis par Martin Legros et Nicolas Truong, in: Philosophie Magazine N°7, philomag.com.

Habermas, Jürgen (1984), The Theory of Communicative Action, Volume I, Heinemann, London.

Habermas, Jürgen (1989), The Theory of Communicative Action, Volume II, Polity Press, Cambridge.

Habermas, Jürgen (1992), Faktizität und Geltung – Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main.

Habermas, Jürgen (1996), Between Facts and Norms – Contribution to a Discourse Theory of Law and Democracy, Polity Press, Cambridge.

Lefort, Claude (1986a), Essais sur le politique (XIXe-XXe siècle), Éditions du Seuil, Paris.

Lefort, Claude (1986b), ‘La question de la démocratie,’ in: Claude Lefort (1986a), Essais sur le politique (XIXe-XXe siècle), Éditions du Seuil, Paris.

Lefort, Claude (1986c), ‘Penser la révolution dans la Révolution française’,” in: Claude Lefort (1986a), Essais sur le politique (XIXe-XXe siècle), Éditions du Seuil, Paris.

Lefort, Claude (1988a), Democracy and Political Theory, Polity Press, Cambridge.

Lefort, Claude (1988b), ‘The Question of Democracy’, in: Claude Lefort (1988a), Democracy and Political Theory, Polity Press, Cambridge.

Lefort, Claude (1988c), ‘Interpreting Revolution within the French Revolution’, in: Claude Lefort (1988a), Democracy and Political Theory, Polity Press, Cambridge.

Weber, Max (1988a), Die Wirtschaftethik der Weltreligionen, in: Weber, Max (1988), Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie I, 1. Auflage 1920, 9. Auflage, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen.

Weber, Max (1988b), Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, in: Weber, Max (1988), Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie I – III, 1. Auflage 1920, 9. Auflage, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen.

Weber, Max (1995), The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism, Routledge, London.